Non abbandonare il sogno europeo – Il difficile cammino dell’integrazione europea

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(Si riporta di seguito il testo della conferenza tenuta da Pietro Giubilo, Presidente della Sacra Fraternitas Aurigarum ai soci della stessa il 21 marzo 2017)

Quello che intendo ricordare oggi non è solo il sessantesimo anniversario di un accordo tra Stati, che concretizzò un progetto per il quale si erano impegnate le intelligenze più feconde di quegli anni, assieme ai politici che vollero costruire un futuro di pace e sviluppo per il nostro Continente.

La storia europea e mondiale nei decenni precedenti aveva visto la realizzazione di accordi e trattati che avevano unito in un tempo limitato il destino di Popoli e Nazioni: accordi e patti, basati su convinzioni ideologiche o interessi di carattere commerciale, che, tuttavia, non erano riusciti ad evitare conflitti e tragedie belliche e che, anzi, contribuirono a provocarli.

Quello che si decise, solennemente, a Roma, quel 25 marzo 1957, aveva un carattere nuovo, forse unico nella storia, a parte gli Stati Uniti d’America. Si iniziava a realizzare un processo di integrazione tra Popoli e Stati che si erano combattuti per secoli, esasperando diversità e contrapposizioni religiose ed economiche.

In particolare nel centro dell’Europa era crollato anche il residuo storico dell’ecumene imperiale, quel nucleo austro-ungarico che, sopravvissuto alle guerre napoleoniche, era stato frantumato alla fine della “grande guerra”, in un equilibrio precario che sarebbe stato una delle cause del secondo sanguinoso conflitto.

I Trattati di Roma

I Trattati di Roma e quell’importante giornata per l’unità dell’Europa erano stati preceduti da un incontro decisivo, che si era svolto a Messina il 2 giugno del 1955. Non era più accaduto, per quasi un anno, che i ministri degli esteri dei sei Paesi della CECA si fossero incontrati dopo la caduta della CED. A Messina venne fuori una discussione circa i criteri con i quali procedere sulla via degli accordi integrativi per settore, similmente a quanto era stato a suo tempo ottenuto per il carbone e l’acciaio. La delegazione francese voleva continuare a seguire questa strada, mentre le delegazioni tedesca e italiana, soprattutto, respinsero questa linea per proporre una integrazione orizzontale, cioè la fusione economica dell’Europa nel suo insieme. Si richiese la creazione di un mercato comune entro cui i vari fattori di produzione (uomini, merci, capitali e servizi) avrebbero dovuto poter circolare liberamente. L’accordo non fu raggiunto subito, ma a Messina si erano poste le premesse per le quali l’abilità diplomatica del premier Belga Spaak riuscì a superare gli ostacoli che venivano soprattutto dalla Francia e preparare la grande giornata del 25 marzo. Si era superato lo stallo e si stava costruendo il rilancio europeo. Fu uno sforzo psicologico notevole – commenta in un pregevole studio sulla Preistoria degli Stati Uniti d’Europa Achille Albonetti – soprattutto per vincere gli interessi di settore, potenti nella vita politica francese, attaccati al protezionismo e al nazionalismo tradizionali … .

Con queste premesse, si realizzò a Roma un Trattato quadro che istituiva la Comunità Economica Europea, costruendo nell’immediato una unione doganale e stabilendo un preciso calendario per lo smantellamento degli ostacoli agli scambi all’interno dell’area e l’instaurazione di una Tariffa Esterna Comune a protezione dell’unione doganale. L’integrazione economica avrebbe avuto bisogno di ulteriori uniformità legislative e, quindi di politiche comuni in tutti i grandi settori della vita economica e sociale per superare le grandi disparità legislative.

C’è un particolare, che non è molto noto, nel Trattato per la CEE. Oltre all’entrata in vigore dell’Assemblea, organismo anticipatore di quello che sarà poi il Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e del Consiglio, composto dai rappresentati di ciascuno dei sei membri e dei relativi organismi esecutivi (le commissioni sia per la CEE che per l’Euratom), su iniziativa dell’Italia, si previde l’approvazione di progetti volti a permettere l’elezione a suffragio diretto universale dei suoi membri , secondo una procedura uniforme nei sei Stati.

Si trattava, dunque, di una scelta precisa nella direzione della integrazione orizzontale, non solo dei singoli settori: non una operazione limitata, ma di fare l’unione economica dell’Europa. Al di là della unione doganale e della unificazione del mercato, l’obbiettivo era quello di costituire una Comunità. Per tali ragioni il risultato più importate di quella giornata nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio di Roma non fu il pur importante Trattato per l’Euratom, ma la costituzione della Comunità Economica Europea. Un tracciato nuovo, una grande sfida per la capacità delle classi dirigenti di costruire una realtà che avrebbe impedito di ritornare alle rivalità che avevano duramente segnato il passato dell’Europa.

Sui Trattati di Roma voglio ripetere quello che disse Guido Gonella, prestigioso filosofo del diritto, più volte ministro e segretario della Democrazia Cristiana, fautore, tra l’altro, di un progetto di Costituzione “conforme all’etica cristiana”; sostenitore fin dagli anni ’30 di quella che riteneva essere la “battaglia europeista” e i cui articoli sull’Osservatore Romano vennero pubblicati nel 1942 con una prefazione dell’allora monsignor Montini. Dieci giorni dopo la firma dei Trattati, il 4 aprile del 1957, parlando a Villa Aldobrandini a studiosi ed esperti di diritto internazionale, precisò il significato di quella giornata. “L’associazione nell’integrazione – disse – è necessità naturale della vita dei Popoli”. “L’integrazione fra i Popoli si manifesta soprattutto – precisava – come integrazione di scopi, come integrazione di fini. E’ lo scopo che collega le Nazioni e ciascuna Nazione integrandosi con altra non sminuisce la sua personalità, ma resta se stessa e pure arricchisce se stessa”.

Aggiungeva, quindi, un concetto, ancora oggi, di grande attualità: L’integrazione internazionale non pregiudica del resto la libertà degli Stati; al contrario tende a svilupparla e a garantirla. Vi è integrazione fra liberi, e non fra despoti e servi. Sembra che l’ integrazione , stabilendo delle interdipendenze, tenda a negare la libertà, mentre invece è condizione essenziale di garanzia della libertà di ciascun popolo … l’istituzione integratrice permetterà allo Stato di uscire dal suo isolamento , combatterà l’assurdo principio della sovranità illimitata. Queste sole considerazioni sono sufficienti a ridimensionare gli argomenti di coloro che, oggi, amano definirsi “sovranisti”, ma che al fondo restano in una idea di chiuso nazionalismo.

I Trattati di Roma, proprio perché animati da questo principio di integrazione, fecero calare negli accordi le due idee fondamentali per assicurare un forte consenso ed un futuro ampliamento delle istituzioni che nascevano. Queste furono la solidarietà e la sussidiarietà.

Nel Trattato di Roma – ha ricordato anche recentemente l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio – c’era il richiamo forte alla sussidiarietà. Basti ricordare che la Comunità Economica doveva aiutare gli Stati a rimanere nel sistema economico europeo.

Si era arrivati al Trattato di Roma, attraverso il difficile, ma essenziale sentiero dello sviluppo della solidarietà tra le Nazioni europee, a partire dal rapporto tra Francia e Germania. Robert Schuman, un cattolico nativo della Lorena, un area della Francia occupata dalla Germania dopo la guerra franco prussiana del 1870 e ritornata ad essa nel 1919, propose, nel 1950, un piano per la creazione di una comunità, per “immettere”, sono parole sue, l’intera produzione del carbone e dell’acciaio … sotto una comune alta autorità, entro la cornice di una organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi d’Europa . Questa Comunità avrebbe assicurato che qualunque guerra tra Francia e Germania sarebbe stata non solo impensabile, ma anche materialmente impossibile.

Per la verità, si arrivò al Trattato di Roma avendo, però, come abbiamo accennato, dovuto abbandonare il cuore del disegno europeista pensato da De Gasperi , Adenauer e Schuman. Infatti, mentre si costruiva il Trattato della CECA, si erano avviati i negoziati per la creazione della Comunità Europea di Difesa, per la creazione, cioè, di un Esercito Europeo integrato, non una mera associazione di Eserciti, ma l’interdipendenza di comandi e armamenti. Si arrivò a firmare il trattato a Parigi il 27 maggio del 1952 e la sua ratifica avrebbe comportato anche la fine dello Statuto d’Occupazione della Germania. Anche in questo caso la storia avrebbe voltato pagina. Si sarebbe trattato, come ha scritto uno storico inglese che ha insegnato in Italia , Mark Gilbert, della più ampia cessione di sovranità fatta dai paesi dell’Europa Occidentale, fino al trattato di Maastricht del 1992. Purtroppo la ratifica dell’accordo non arrivò, perché, alla fine di agosto del 1954, l’Assemblea Nazionale francese rigettò il trattato per l’opposizione congiunta di gollisti e comunisti.

La imminente bocciatura della CED faceva ritenere a De Gasperi che l’Europa che si sarebbe costruita era diversa da quella ideata dai cattolici.

L’attesa degli anni ‘60

Infatti l’avvento al potere in Francia del Generale De Gaulle, l’anno dopo dei Trattati di Roma, condizionò, per gran parte degli anni ’60, la politica europeista. Si sviluppò una linea che accantonò l’idea dell’integrazione per sviluppare quella di una Unione di Stati che si esprimevano attraverso politiche estere proprie. L’idea fondamentale del Generale era quella di lasciare il potere decisionale nelle mani dei singoli Stati Membri, escludendo la Commissione e l’Assemblea . I progetti per un Parlamento eletto direttamente, per una maggiore integrazione economica e per una cooperazione politica vennero messi da parte finché il Generale restò al potere.

In quegli anni difficili fu ancora un cristiano sociale, il tedesco Walter Hallstein, primo Presidente della Commissione Europea, vicino ad Adenauer, a portare avanti la visione di integrazione, sostenendo una linea per la quale l’Assemblea dovesse avere un ruolo più significativo, e si avviassero politiche di integrazione in campo agricolo e di bilancio. Il piano del Presidente della Commissione riuscì solo parzialmente per l’opposizione francese, tuttavia la sua linea politica, condivisa da molti altri Paesi, tra i quali l’Italia, servì a mantenere l’attenzione sulla via dell’integrazione europea.

La Comunità si allarga

Dopo l’uscita dalla scena politica del Generale De Gaulle, negli anni ’70 l’Europa venne fuori indenne dalle crisi, in buona parte causate dalle vicende petrolifere e dalla disdetta americana degli accordi di Bretton Wood dell’agosto del 1971. Pur nella diversità delle economie, nessuno dei nove Paesi ritenne di ritirarsi dalla Comunità e nessuno intraprese la strada del protezionismo e quasi tutti manifestarono l’intenzione di rafforzare la cooperazione, accettando una interpretazione sopranazionale del trattato della CEE nei riguardi delle leggi nazionali e spingendo per il raggiungimento di una maggiore integrazione economica. In quegli anni numerose sentenze della Corte Europea di Giustizia consolidarono un elemento importante del Trattato della CEE e cioè l’idea che la Comunità Europea non era soltanto un associazione di Stati, uniti da uno scopo comune, ma era invece una comunità di Stati legati ad una struttura legale che conferiva dei diritti ai loro cittadini. L’1 gennaio del 1973 vi aderirono Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Al Vertice di Parigi del dicembre 1974 fu confermato il principio di elezione diretta del Parlamento europeo che divenne Legge nel 1976 e che, comunque, era già previsto nel Trattato di Roma . La relazione del Primo Ministro belga, Leo Tindemans del partito cristiano democratico, indicò la strada da seguire e cioè che l’Europa dovesse dotarsi di una politica economica e monetaria comune (era stato istituito nel marzo del 1972 il cosiddetto “serpente monetario” per evitare eccessive oscillazioni tra le monete della CEE) istituire programmi di sviluppo regionale per correggere le disparità nello sviluppo e controbilanciare gli effetti accentratori delle società industriali. Si intravidero anche altri importanti obbiettivi: la proposta di un passaporto europeo e la libera circolazione attraverso le frontiere.

L’Atto Unico Europeo

Negli anni ottanta la Comunità Europea realizzò decisivi passi in avanti, sia per l’entrata di Grecia, Spagna e Portogallo, sia aggiungendo ai Trattati di Roma ulteriori importanti obbiettivi; sarà quello che viene ricordato come l’Atto Unico Europeo. L’avvio lo diede un testo elaborato a Stoccarda nel 1983 dal ministro degli esteri italiano Emilio Colombo e dall’omologo tedesco Hans Dietrich Genscher, del Partito liberale, che era stato nel governo Brandt e che, poi, aveva condotto la sua formazione politica ad allearsi con la CDU/CSU, diventando Vice Cancelliere del governo di Helmut Kohl. Si giunse, nel 1986, con la firma dell’Atto, ad una maggiore snellezza di decisioni nella Commissione , si istituì il Consiglio e le Conferenze dei Capi di Stato e di Governo , si potenziarono i poteri del Parlamento , la convergenza delle politiche monetarie e importanti innovazioni nel campo lavorativo e della coesione sociale, la creazione dei fondi europei regionali e di sviluppo e rilevanti obbiettivi ambientali. Il completamento del mercato interno veniva così definito: uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci , delle persone, dei servizi e dei capitali, con l’impegno di attuarlo entro il 31 dicembre del 1992.

Si tornava all’obbiettivo di una decisiva forma di integrazione che andava oltre gli aspetti delle convergenze tra gli Stati, per costituire una condizione di libertà e di comunione che toccava la vita quotidiana dei cittadini europei. Un valore che oggi, pur nelle difficoltà riferite ai temi della sicurezza e delle diverse condizioni economiche dell’Europa va assolutamente salvaguardato.

Il cammino verso Maastricht

L’importante lavoro prodotto con l’Atto Unico fu la base per il successivo passo in avanti, decisivo per la costruzione europeista. Infatti il terreno che si era creato venne occupato dalla iniziativa legata ad un ministro francese che divenne Presidente della Commissione europea dall’85 al ’95, Jacques Delors, un socialista cattolico legato alla concezione personalista di Emmanuel Mounier . Le sue proposte erano contenute in un “pacchetto” , cioè un piano di cinque anni, finalizzato all’aumento della spesa comunitaria per lo sviluppo regionale . Infatti il suo obbiettivo era rappresentato da un trasferimento di ricchezza verso le aree più povere dell’Europa che venne raggiunto anche grazie alla disponibilità di Germania e Italia. Ma Delors aveva una seconda preoccupazione quella di realizzare l’unione economica e monetaria. La trattativa non fu semplice per la posizione tedesca – in particolare della Bundesbank – che esigeva alcune condizioni che, poi , furono inserite nell’accordo di Maastricht.

Nel tempo nel quale si andava preparando il compromesso che portò alla moneta unica, avvenne un fatto destinato ad avere conseguenze politiche anche molti anni più tardi , il passo indietro della Gran Bretagna che nei decenni precedenti, dopo aver contrastato il disegno europeista, aveva finito per aderire nel 1973 alla Comunità Europea. Margareth Thatcher in un famoso discorso nel settembre 1988 ribadì che la Gran Bretagna sosteneva un’Europa solo come libera cooperazione tra Stati sovrani, aperta al mondo, al cambiamento e all’impresa. Ogni forma di federalismo veniva respinta; non solo, ma anche limitata ogni forma di governo sovranazionale e, conseguentemente, anche la politica sociale dell’Europa non rientrava nell’orizzonte di una Inghilterra che correva verso la massima deregulation economica e sociale.

L’apporto di Delors all’accordo o , come sostengono alcuni al “compromesso” di Maastricht fu importante. Per il suo successo fu determinante anche la disponibilità dl Cancelliere Helmut Kohl. Per la verità a Maastricht la Presidenza europea di turno era degli Olandesi che, insieme ai Tedeschi proposero che, oltre alla convergenza monetaria, si potesse rendere in comune anche la politica estera e di difesa. Si oppose la Francia di Francois Mitterrand che era interessata unicamente all’aspetto monetario, per contenere il cresciuto peso della Germania che si avviava verso la unificazione. Per un verso si continuava nella logica dell’Unione tra Stati – la Comunità Economica Europea divenne Unione Europea – per un altro verso , ed era di estrema importanza, si raggiunse la più elevata cessione di sovranità e l’integrazione di uno degli elementi cardine della vita sociale, cioè la moneta. Il deciso passo in avanti sulla strada dell’integrazione – un valore non rinunciabile – spinse ad accettare la realtà che vedeva il nuovo sistema monetario sostanzialmente vicino al modello della Germania, che, peraltro, veniva ancorata all’Occidente proprio nel momento nel quale aveva raggiunto la riunificazione. Si evidenziò nella decisione sull’euro, la ratifica di una separazione monetaria e quindi finanziaria ed economica con la Gran Bretagna che si tenne stretta la sterlina. Evidentemente Londra protesse la sua forza di attrazione finanziaria che ha tuttora sede nella City, un vero e proprio hub per le operazioni finanziarie e il transito verso i paradisi fiscali.

Un altro aspetto – purtroppo passato in seconda linea – che venne sancito a Maastricht fu la riaffermazione del principio di sussidiarietà. Esso era stato già implicitamente presente nei trattati della Comunità Europea a Roma ed aveva fatto la sua prima apparizione nell’Atto Unico. Nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992 venne definito più volte nel testo degli articoli come importante principio regolatore dell’esercizio delle competenze della Comunità . In sostanza si affermava il dovere di non ingerenza degli Enti sovranazionali per assicurare non solo l’interesse generale, ma anche per rispettare il principio per il quale le decisioni dovevano essere le più prossime possibile ai cittadini. Tuttavia l’esperienza degli anni successivi ha dimostrato, invece, che sempre più ampie funzioni e competenze vennero affidate agli Organi centrali della Comunità e dell’Unione, mentre il rapporto tra Commissione e Parlamento rimaneva sbilanciato verso la prima e l’organismo più rilevante, la Banca Centrale Europea, per la debolezza del peso politico degli organi comunitari, avrebbe assunto un ruolo sempre più decisivo.

Nonostante il quasi insperato successo raggiunto nella cittadina olandese, negli anni che sopraggiunsero, l’orizzonte europeo divenne nebuloso.

Il progetto costituzionale bloccato

L’accordo sulla moneta unica era stato un accelerazione, rispetto alla edificazione del contesto, cioè alla necessaria definizione dei caratteri della nuova realtà istituzionale che si andava costruendo. L’Euro, che prese a circolare dal 1° gennaio 2002, era una moneta senza Stato: l’impegno che ne derivava avrebbe dovuto comportare l’ approvazione di una Costituzione europea.

Non si sarebbe trattato di una esercitazione di tipo giuridico , ma della affermazione del carattere e dell’identità dell’Europa, intesa non solo nella sua realtà istituzionale , ma come comunità complessiva. Con l’Euro l’Europa stava diventando una Nazione, i passi ulteriori che ne sarebbero dovuti derivare riguardavano la politica estera e di difesa comuni, bilanci e sistema bancario e fiscale sempre più ravvicinati . Tutto ciò richiedeva appunto di fissare gli elementi fondanti dello “Stato” europeo.

Ma il percorso per il Trattato costituzionale apparve subito condizionato da quel carattere di unione tra Stati che si era ormai consolidato, di conseguenza non si intravedeva un trasferimento di sovranità verso le istituzioni sovranazionali .

Nello stesso tempo, i lavori della Convenzione per il futuro dell’Europa, che era stata incaricata di redigere il Progetto di Trattato Costituzionale dell’Unione Europea e che si riunì dal febbraio 2002 al luglio 2003, venne influenzata dall’asse franco tedesco, con la presentazione da parte del presidente francese Chirac e dal cancelliere tedesco Schroeder di un documento, a gennaio del 2003, proprio nella ricorrenza del trattato dell’Eliseo, siglato nel 1963 da De Gaulle e Adenauer.

D’altra parte emersero numerose difficoltà e il testo presentato a luglio del 2003 venne ratificato da soli 11 dei 25 Stati membri e i referendum che si tennero in Francia e in Olanda nel maggio e giugno 2005 bocciarono la proposta. Fu determinante, ancora una volta, il “veto” francese .

A parte il permanere di una tentazione nazionalista che ebbe il suo peso, questo risultato negativo per l’Europa in Francia, fu il segnale di un distacco che si andava manifestando tra le istituzioni europee e l’opinione pubblica, forse a seguito di alcuni effetti economici negativi dovuti alla prima fase di introduzione della moneta unica.

Nel dibattito sulla Costituzione europea si verificò, poi, una circostanza non nuova, ma particolarmente significativa. I Pontefici erano più volte intervenuti nei decenni precedenti, per tutto il corso della complessa crisi novecentesca dell’Europa. Tra i più significativi non si possono dimenticare l’appello di Benedetto XV sulla “inutile strage” a proposito della prima guerra mondiale e quelli di Pio XI sul dramma dei totalitarismi del periodo tra le due guerre. Pio XII in numerose occasione ebbe modo di incoraggiare il governi alla necessità dell’unificazione conservando lo spirito europeo e i suoi presupposti morali e spirituali. In particolare il 14 giugno del 1957, qualche mese dopo l’accordo di Roma, aveva esortato gli Europei a proseguire sulla via dell’unità riaffermando, per l’Europa, la “missione storica” di essere fermento cristiano.

Giovanni Paolo II comprese subito, con preoccupazione, che i documenti, adottati a partire dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza nel dicembre del 2000 e successivamente l’avvio della Convenzione per il Trattato costituzionale, comportassero la marginalizzazione delle religioni e del loro contributo alla cultura e all’umanesimo di cui l’Europa andava legittimamente fiera . Poi, tra la fine della Convenzione europea e l’inizio del semestre di Presidenza italiano, pubblicò, il 19 giugno del 2003, l’Esortazione Apostolica postsinodale Ecclesia in Europa, un documento di grande spessore storico e dottrinale. Proprio nel tempo che appare come una stagione di smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane – dichiarava il Pontefice – era necessario e urgente aiutare l’Europa a costruire sé stessa rivitalizzando le radici cristiane che l’hanno originata. Dopo altri ripetuti interventi il Papa, il 24 agosto, affermò esplicitamente che riconoscere nel Trattato le radici cristiane dell’Europa diventa per il Continente la principale garanzia per il futuro. Di questa esigenza se ne fecero interpreti anche esponenti della cultura e del diritto di altre confessioni religiose. Tuttavia nella bozza presentata al Consiglio europeo di Salonicco nel giugno 2003 non vi erano menzionati ne Dio , né il cristianesimo. Alla conferenza governativa del 4 ottobre alla proposta del governo italiano, che ne dirigeva i lavori, di far riferimento a questa identità per l’Europa, pur essendo la maggioranza dei governi disponibili, si oppose il rifiuto francese, motivato con l’argomento che esso era in contrasto con il principio francese della “laicità” dello Stato. La Francia fermò tutto ancora una volta.

Ci fu, anche allora, un’idea nichilista dell’Europa come soggetto storico con la riduzione a diritto ed economia , senza spirito e senza religione, senza significato e senza missione universale. Per la verità fu un rifiuto di carattere ideologico e si può essere ragionevolmente convinti che, proprio l’aver estirpato questi riferimenti, indebolì il Testo costituzionale, contribuendo non solo ad accrescere una valutazione negativa della pubblica opinione europea, ma ad accentuare il giudizio su di una costruzione europea che si presentava, soprattutto, nei suoi aspetti economici, aspetti che, poi, a fronte degli eventi che seguirono – la crisi del 2008 – avrebbero creato timori e preoccupazioni. Ci aiutano, tra i tanti, a capire il senso del confronto che ci fu allora, sia gli ammonimenti di Romano Guardini che, nel 1946, aveva scritto : Se l’Europa deve esistere ancora in avvenire , se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quell’entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi deve diventare, con una nuova serietà , ciò che è secondo la propria essenza, sia quelli di Giovanni Reale che, nel 2003, affermava: “Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura … il mondo occidentale ha la sua unità, in questa eredità, nel Cristianesimo e nelle antiche civiltà della Grecia, di Roma e d’Israele , alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo , noi riconduciamo la nostra origine.

Il federalismo si allontana

Perduta la battaglia del Trattato costituzionale, quattro anni dopo, a dicembre 2007 , a Lisbona, riprese il tentativo di una riforma della Unione europea. L’Europa, intanto, era arrivata a contare ventisette Paesi: nel 2013 si aggiunse il ventottesimo, la Croazia; mentre stentava ad andare avanti il processo di integrazione , l’Europa si allargava fino comprende quasi tutte le Nazioni dell’Est che, dopo la fine del regime sovietico, vedono nell’Unione europea il loro naturale destino. Qualcuno ritiene che questo allargamento possa aver contribuito al rafforzamento di una visione nazionalista dell’Europa , nel senso che in alcuni Paesi centro orientali ci si è mostrati inclini a sfruttare solo i vantaggi dell’appartenenza europea. Tuttavia si trattò di una esigenza storica di riavvicinamento, dopo anni di separazione . L’Europa mostrava la sua forza attrattiva.

A Lisbona, però si spensero le ultime speranze di un’Europa federale. Il Trattato che verrà accettato da tutti i Paesi europei e che entrerà in vigore il 1° dicembre 2009, mise la parola fine sull’ipotesi federale. Si giunse ad un accordo per il calcolo del voto nel Consiglio d’Europa; il rappresentante della politica estera divenne anche vicepresidente della Commissione senza disporre di un potere aggiuntivo; l’organismo più rappresentativo, la Commissione, che ebbe maggiori poteri di intervento sui governi, si configurò più come un organismo accentratore che di tipo federativo.

Questi organismi accentratori negli anni successivi avrebbero assunto decisioni, ratificate dai governi – vedi il fiscal compact – che non si dimostreranno pienamente all’altezza di affrontare una crisi economica nata negli USA nel 2007 e i cui sviluppi sono tuttora presenti in Europa.

L’intesa franco tedesca si mantenne su una linea di accordo entro i limiti confacenti alla Gran Bretagna. In Italia un giurista cattolico, Giuseppe Guarino, sostenne che l’evoluzione del potere della Commissione configurava una violazione dell’articolo 11 della nostra Costituzione, in quanto le limitazioni alla sovranità, che venivano a determinarsi, non erano realizzate in condizioni di parità con gli altri Stati e precisamente con Gran Bretagna e Danimarca, membri del Trattato, ma esonerati dalla partecipazione all’Euro.

Questo cammino lungo e complesso, nel quale si sono avuti , come abbiamo visto, momenti di luce e di ombra, speranze e disillusioni, passi in avanti e arretramenti, costituisce una realtà che, comunque, oggi, appare più necessaria che mai.

L’apporto della politica di ispirazione cristiana

In tutti questi anni, come abbiamo visto, il più vigoroso contributo alla integrazione europea è venuto dalla politica di ispirazione cristiana. Per molti anni le tappe dell’unificazione sono state contrastate dalla sinistra marxista, dalla stessa socialdemocrazia tedesca fino al 1955 e dai residui di un nazionalismo conservatore, a volte alleati, nel respingere i progetti più significativi. Una spiegazione c’è ed è evidente nella sua semplicità: a contrastare i residui di culture ideologiche, che hanno avuto tanto spazio e tanta responsabilità nelle tragedie del XX secolo, c’è stato, soprattutto, il realismo della cultura politica di ispirazione cristiana, così come è stato soprattutto il popolarismo che ha invocato il riscatto dei più deboli sia socialmente che territorialmente, sostenendo l’idea che la comunità debba prevalere sulla assolutezza dello Stato e che i corpi intermedi costituiscano la linfa della democrazia partecipativa, in una sussidiarietà che non può mancare anche nella costruzione europeista. Il mercato, gli interessi e le stesse strutture istituzionali non possono diventare il fine di un disegno politico, che invece deve possedere il dono di un carattere universale e di civiltà.

Il tempo delle sfide radicali

In questo ultimo decennio si sono aperte sfide radicali nel mondo, soprattutto dove l’Europa, nel corso dei millenni, ha sparso le conquiste della sua civiltà.

Innanzitutto vi è una sfida di carattere antropologico. La cultura del relativismo tende oggi a mutare le condizioni di vita dell’uomo europeo. I diritti non deriverebbero più dalla legge morale naturale, dati previamente come valori di ordine superiore, ma divengono sempre più espressione individuale dei desideri e ad essi non fa riscontro alcuna responsabilità; gli istituti del matrimonio e della famiglia vengono stravolti e limitati come relazione tra uomo e donna e cellula nella formazione della comunità statale; la questione religiosa che vede mettere in discussione, come sottolineava a suo tempo il cardinale Ratzinger, il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro e, nel senso più alto, per Dio che sarebbe lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a credere. E’ in questo contesto edonistico che emerge la gravissima crisi demografica che più di qualcuno, come ad esempio Ettore Gotti Tedeschi, ritiene essere alla radice della crisi produttive e nel mancato sviluppo.

Si è visto a questo proposito come, nell’ambito delle istituzioni europee, si affacciano e, a volte, prevalgano, indirizzi contrari all’identità europea e dei suoi connotati civili , alla cui difesa si oppone, pressoché esclusivamente, il Partito Popolare Europeo.

La seconda sfida è rappresentata dalla utopia globalista. Se è pur vero che il destino dell’Europa è quello della diffusione della sua civiltà ben oltre il suo limes geopolitico, siamo oggi in presenza di una visione nuova del mondo nella quale l’Europa viene compressa e limitata. Si tratta dell’idea che la libertà dei mercati e del movimento dei capitali sia l’elemento decisivo per l’equilibrio internazionale e lo sviluppo dei Popoli. Per la verità questa idea finisce per spianare la strada a quella che Giulio Tremonti definisce la nuova superpotenza, il mercato finanziario globale, la repubblica internazionale del denaro ed alla trasformazione delle democrazie in oligarchie. Le implicazioni sul piano sociale e di questo nuovo potere sono state vigorosamente denunciate da Papa Francesco con l’efficace definizione di una economia che uccide e del denaro che, invece di servire, governa. Il maggiore cedimento a questa utopia ultraliberista, ma sostanzialmente oligarchica, viene dalle posizioni politiche postcomuniste e da quelle formazioni influenzate dalla cultura neoilluminista. La proposizione di un’economia sociale di mercato rappresenta una linea di resistenza tesa a difendere l’economia reale e lo spazio sociale e produttivo delle piccola e media impresa e del lavoro libero, la difesa dell’occupazione, non riducibili ad essere variabili dipendenti, comprendendo, per quanto attiene alla dimensione aziendale maggiore, la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, al fine di realizzare comunità di lavoro. Questi sono gli obbiettivi sui quali si impernia il programma dei popolari europei.

Una terza sfida, diffusa in qualche modo a livello globale, ma che interessa soprattutto l’Europa è quella dei flussi migratori. E se questa ha assunto un livello emergenziale, tuttavia siamo di fronte ad un fenomeno di carattere epocale, il cui primo impatto lo abbiamo nelle frontiere sud del nostro Paese. Nell’Ottavo Rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa troviamo la diagnosi più completa del fenomeno.

Le modalità con cui oggi si affrontano le migrazioni – è scritto – sono insufficienti. Il fenomeno va governato, ma per poterlo fare bisogna conoscerlo nella sua realtà. Impegnarsi per risolvere i problemi nei Paesi di origine, colpire le reti di trafficanti di persone umane, non creare in quei Paesi situazioni di guerra pilotata dalle potenze occidentali, colpire anche militarmente i califfati sanguinari anziché finanziarli o sostenerli indirettamente, proteggere i cristiani perseguitati , pretendere pariteticità con gli Stati islamici, vegliare sugli ingressi di emigranti islamici, avere chiaramente in testa una piattaforma di valori da pretendere che gli immigrati condividano , dare prima assistenza a tutti, ma non accogliere e integrare tutti, proteggere la propria identità culturale e nazionale, difendere le proprie radici cristiane e cattoliche, … operare per l’aumento della natalità nei nostri Paesi con adeguate politiche familiari e demografiche … . E’ evidente che anche in questo ambito è indispensabile una politica di livello europeo poiché solo un coordinamento complessivo può consentire di intervenire laddove il fenomeno ha origine e lo steso approccio può favorirne il contenimento ed una stabile integrazione.

La quarta sfida proviene dal sempre più pressante rischio del terrorismo. Anche i numerosi episodi che si sono avuti a Parigi, a Bruxelles, a Londra, a Berlino, a Nizza e pochi giorni fa’ ancora Londra , sono i segnali di un rischio sempre più diffuso e insidioso nella sua imprevedibilità. Ora sotto il profilo più immediato è indispensabile il rafforzamento dei sistemi di sicurezza con il massimo coordinamento delle strutture di intelligence. A ben vedere questi settori sono parte dei più vasti sistemi militari dei Paesi europei. Il loro coordinamento dovrebbe far parte della unificazione della politica estera e di difesa a livello europeo. Del resto anche sotto il profilo dell’efficacia operativa, degli investimenti e della ricerca questa unificazione appare il presupposto indispensabile, anche in relazione alla possibile nuova politica estera degli Stati Uniti e alla crescita di responsabilità da parte dei Paesi europei nell’ambito NATO.

La quinta sfida riguarda un altro aspetto della integrazione del territorio europeo e le basi del suo sviluppo: quella degli investimenti infrastrutturali sia di ordine materiale, sia delle reti di connessione telematica, sia dei sistemi di ricerca avanzata . Si tratta di opere che connettono complessivamente tutto il Continente e solo a tale livello possono coinvolgere capitali , ambiti di ricerca e adeguate capacità operative. Si tratta della base indispensabile per lo stesso sviluppo economico e produttivo e per la comunicazione e la circolazione dei beni e delle persone . Un grande programma di investimenti infrastrutturali coadiuverebbe anche , di per sé, la domanda interna favorendo lo sviluppo produttivo e la crescita del PIL dei diversi Paesi. Il piano Junker va in questa direzione, ma occorre andare oltre. L’Europa deve tornare a crescere a ritmi di oltre i 3 – 4 per cento e ciò non può essere ottenuto con il solo volano di carattere monetario come, pur positivamente, sta effettuando la Banca Centrale Europea sotto la guida di Mario Draghi.

Infine l’Europa ha di fronte una sfida sociale poiché le ricette ultraliberiste hanno messo in crisi i sistemi di welfare, facendo crescere le diseguaglianze, restringendo le opportunità dei ceti medi e bassi della popolazione. A tale riguardo è ormai dimostrato che la perdita di opportunità di questi settori sociali costituisce una sollecitazione ai processi recessivi in ambito economico generale. L’idea che la riduzione delle risorse da destinare al sociale produca di per sé un rilancio dell’attività produttiva si è dimostrata non solo socialmente negativa, ma sbagliata anche negli effetti . L’integrazione europea è anche avvicinamento dei sistemi sociali e di crescita complessiva di opportunità, che, non può non avere una dimensione di intervento a questo livello.

Ora tutte le sfide che abbiamo indicato hanno la possibilità di essere raccolte alla sola condizione che ciò avvenga a livello europeo. Cinquecento milioni di europei possono influire nelle vicende mondiali solo tutti insieme e non come Stati nazionali. Così come le azioni per superare le crisi e conseguire gli obbiettivi prioritari possono essere intraprese solo con l’unità dell’Europa.

Ritornare allo spirito dei Trattati di Roma

Deve tuttavia essere un’Europa che sappia riprendere lo spirito e il percorso che condusse ai Trattati di Roma. Una Europa, cioè, che ritorni sulla strada dell’integrazione e della piena democratizzazione. Perché l’integrazione è la vittima designata dei nazionalismi e il fondamento dell’Europa politica è l’autorevolezza e la forza democratica delle sue istituzioni.

Questo significa che vanno decisamente incrementati i fattori di solidarietà come il Fondo salva Stati , il Fondo europeo per gli investimenti strategici e le risorse per gli interventi sulle aree depresse , presentando inoltre progetti di copertura europea sui sistemi assicurativi nazionali delle indennità di disoccupazione.

Vanno inoltre accelerati i processi di integrazione come quello dell’armonizzazione fiscale o dell’unione bancaria, a condizione di rafforzare la salvaguardia e la valorizzazione del risparmio, preservandolo dai rischi delle operazioni speculative con la separazione tra banche di investimento e banche commerciali; senza questa separazione il bail in rischia di coinvolgere i risparmi, come, del resto, è già avvenuto. Dare il via, inoltre, ad una condivisione del rischio con l’adozione degli eurobond, al fine di impedire gli interventi del mercato finanziario di sfruttamento delle oscillazioni degli spread sui titoli pubblici nazionali .

E’, poi, urgente, come ha spiegato recentemente Enrico Letta nel suo ultimo libro-intervista, che nell’opinione pubblica l’euro diventi sinonimo di crescita , non di declino , altrimenti la sua percezione sarà sempre più disastrosa. E ciò non deve assolutamente accadere, in quanto l’euro è stato la massima integrazione ottenuta non solo in termini monetari, ma per il suo trascinamento economico complessivo. Andrebbe semmai corretta la sua architettura regolamentare, troppo condizionata dai vincoli strutturati in parametri che ingessano la possibilità delle azioni finalizzate alla ripresa produttiva ed occupazionale, anche tenendo conto delle considerazioni critiche svolta da economisti europeisti, ma portatori di proposte di riforma, come Guarino, Savona, Di Taranto ed altri. E’ una questione che va affrontata pena il rischio dell’esaurirsi del sogno europeo.

Anche il rapporto tra la forza della sovranità popolare e la voce dei tecnocrati va riportata alla sua giusta priorità con l’aumento delle prerogative dei parlamentari europei, ma anche con una maggiore attenzione al principio di sussidiarietà per quanto attiene al ruolo dei parlamenti nazionali, nel rispetto di quanto previsto negli stessi accordi di Maastricht e non sempre pienamente rispettato.

Una ultima considerazione: abbiamo ripercorso il lento cammino della storia del progetto europeo , i momenti di crescita e gli insuccessi, le sfide che l’attendono, gli obbiettivi da porsi, la ripresa dello spirito di integrazione dei Trattati di Roma. Nell’ultimo anno, però, si è avuta l’impressione che sia diffusa una sorta di preoccupata rassegnazione, complice il giudizio negativo degli elettori inglesi che nel 2016 hanno votato per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. A ciò si è aggiunta l’idea che la ripresa di un impegno a progredire negli obbiettivi europeisti si possa compiere a condizione che si accetti un’Europa a più velocità.

Su questo aspetto non si può essere assolutamente d’accordo. Infatti, come ha scritto una settimana fa’ Galli della Loggia, sarebbe la presa d’atto di un fallimento, anche perché questa ipotesi è l’opposto dell’integrazione e sancirebbe il principio della divisione.

Il coraggio e la speranza

Gli uomini, che erano radunati nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio la sera del 25 marzo 1957, non si illudevano che gli auspicati sviluppi potessero verificarsi in un tempo breve; ma avevano la speranza che il progetto, per il quale apposero la loro firma, si sarebbe affermato ed ebbero il coraggio di compiere il passo decisivo per andare avanti .

L’Unione Europea sta vivendo uno dei momenti più difficili e la più lunga crisi dalla sua creazione. Eppure è ancora possibile ritrovare la stessa speranza e lo stesso coraggio degli uomini di allora, perché , come ha affermato Papa Francesco, abbiamo di fronte un Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità.

Ma Papa Francesco – ecco la speranza – non faceva mancare il suo incoraggiamento per tornare alla ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione Europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme, per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente.

Ed in questo anche noi dobbiamo continuare a credere.