Il cristianesimo appariva utile ai governanti romani?

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I governanti romani avevano anzitutto problemi di frontiera, a causa di popoli che dal nord e dall’est premevano per entravi, e quindi avevano bisogno di militari da reclutare anzitutto tra le popolazioni romanizzate. Questi governanti solo lentamente capirono che, rinunciando al rito religioso pagano di fedeltà, avrebbero ottenuto il consenso dei cristiani al sevizio militare. Inoltre al vertice dell’Impero era noto che la classe dirigente dei governi locali era spesso infida e corrotta, mentre tra i cristiani emergevano frequentemente persone (anche di alto rango) del tutto affidabili: fin dal I e II secolo erano ben conosciuti intellettuali cristiani che tenevano testa alla cultura pagana, avevano importato scuole di alto livello e facevano ben sperare per l’avvenire dal punto di vista filosofico (platonismo e stoicismo filtrati). Non poteva sfuggire ai dirigenti romani che l’economia dell’Impero era in sofferenza soprattutto per due difetti: l’enormità della forbice sociale (che non favoriva né produzione né consumo di utile ritorno) e l’etica dei rapporti sociali (dalla stabilità familiare all’impegno lavorativo).

Ebbene: tutti e due questi mali avevano nel cristianesimo una benefica medicina. I responsabili romani capirono, così, che l’odiata Babilonia dell’Apocalisse giovannea non era affatto Roma, bensì la sua contraffazione idolatrica e, soprattutto, che il traguardo storico prospettato dall’Apocalisse non era affatto la prospettiva distruttiva dell’eterno ritorno, ma la prospettiva positiva del tempo e della civiltà in servizio del Vangelo.

Quando lo capirono l’intesa fu inevitabile.

Don Ennio Innocenti