Fede cristiana e dottrina sociopolitica

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Gesù Cristo ha ottenuto fede nel mistero della sua persona divina e questa accettazione ha portato a confronti seri con le idee che gli uomini si fanno del loro vivere sociale (basti pensare al matrimonio o al problema dei poveri) e politico (basti pensare, al di là delle sue forme contingenti, al fondamento razionale della legge).

I primi cristiani si fronteggiarono con un potere politico generalmente sacralizzato e autocratico: la loro iniziale affermazione d’un Dio unico creatore urtava contro il politeismo di comodo professato dalla “città”; la successiva loro affermazione della Trinità rivelata da Cristo perfezionava l’implicita subordinazione della politica al modello divino. Anzitutto l’Autorità politica derivava dal Creatore dell’Universo; inoltre, la comunità religiosa voluta da Gesù (la chiesa) poteva pretendere un’originaria autonomia fondativa, se Gesù fosse stato riconosciuto come Dio uguale al Padre; infine i rapporti interni della società politica cristiana sarebbero stati orientati ad una solidarietà esemplata sull’unità armonica intratrinitaria. Mi sembra, inoltre, scontato che i cristiani avrebbero portato nella “civitas” uno speciale dinamismo etico, suggerito dall’attesa apocalittica, attesa ravvivata da formidabili mutamenti politici e sociali del trapasso dall’Impero Romano al Sacro Romano Impero e dal sistema sociale schiavistico al sistema feudale, con evidenti ripercussioni nella cultura e nell’arte.

Quando la società cristiana (gerarchizzata, armonica e laboriosa) permise la diffusione d’un relativo benessere (aumento demografico, rivoluzione agricola – e anche industriale – e apertura dei mercati con crescenti rapporti) i cristiani dovettero porsi il problema dello sviluppo legato alla moneta (alla sua falsificazione e allo stravolgimento della sua natura).

Con grande ardimento fu impostato il problema della sua circolazione (sottolineando il suo aspetto simbolico-spirituale) e del benefico prestito del virtuoso risparmio, proteggendolo dall’usura.

Su quest’ultimo caposaldo della vita sociale non sarà mai abbastanza lodata l’intelligente e equilibrata soluzione dei giuristi laici medievali che (contro il rigorismo moralistico di derivazione monastica) mostrarono la ragionevolezza d’una qualche equa ricompensa per coloro che col virtuoso risparmio permettevano in solidarietà sociale il potenziamento del lavoro e, quindi, dei suoi frutti.

Purtroppo la moderna frattura della cristianità ha portato, nel nord Europa, all’accreditamento dell’idea che la moneta fosse fruttifera di per sé (declassando il lavoro) e (con la Banca d’Inghilterra) che essa non fosse ragionevolmente rappresentativa dei frutti del lavoro, portando così – progressivamente – alla disumanizzazione del lavoro, a nuovi schiavismi, alla mortificazione dell’autorità politica propria delle comunità storiche e naturali. Anzi, nell’area della “riforma protestante”,teorici della società e della politica persuasero che l’uomo non è naturalmente sociale, che l’autorità deriva solo da un consenso contrattuale, il cui criterio è solo l’utile. Su queste basi si giunse alla rivoluzione che sarà il primato dei diritti (non dei doveri) e della volontà (non del bene).

Si volle esaltare il guadagno come segno di predestinazione divina, il lavoro come realizzazione dell’homo faber con lo sbocco finale dell’oscuramento della persona ridotta a numero, del predominio del formalismo giuridico e burocratico, del predominio burocratico d’un capitalismo ignaro del bene comune (e soprattutto del bene etico e spirituale), strumento esso stesso d’una finanza remota dall’economia reale (e dal mondo vero del lavoro) cinicamente autoreferenziale e nemico dell’etica.

Queste sono le caratteristiche della società liberale che è stata accettata anche dai popoli d’area cattolica, gementi ora sotto il tallone della precarietà, della disoccupazione e dell’ostentato lusso di pochi.

In tale quadro si sono oscurati anche i criteri che la cristianità aveva fissato altresì per la necessità della difesa contro l’eventuale nemico esterno o interno (= limiti della guerra giusta, del diritto di resistenza contro la legge ingiusta e del tirannicidio) e qui da noi si son già visti casi di azione terroristica accreditati perfino nel nome cristiano.

Ma della matrice cristiana restavano, in quei casi, solo echi di apocalisse mal digerita e di un millenarismo acritico.

Forse più riconoscibili sono apparsi, in essi, gli echi anabattisti e anarchici che hanno favorito l’allineamento a noti modelli rivoluzionari egemoni e presto falliti.

Tutto questo non è nelle lontananze di gesuiti latino-americani, perché abbiamo visto proprio qui da noi le degenerazioni esplose nell’università cattolica, tra le fila dell’Azione Cattolica e degli Scout, e gli esempi clamorosi di Curcio e di Toni Negri.

Bisogna capire in tempo i moniti dei vescovi che da anni ripetono: la situazione è esplosiva. Non occorrono analisi sociali per capire che quando i disoccupati sono milioni e milioni, le imprese che chiudono sono decine di migliaia, i suicidi sono già centinaia … anche le ideologie violente d’accatto diventano bandiere.

Le violenze, per ora, sono isolate ed esplicitamente anarchiche, ma la sofferenza è troppo diffusa e mi fa pensare che, anche se la Chiesa fosse generosa come in Grecia, l’onda della rabbia crescerebbe irrefrenabile di fronte alla ingovernabilità del sistema. Forse siamo tra le doglie d’un parto, ma chi battezzerà il neonato (ammesso che non compaia anch’esso già morto)?

Ennio Innocenti