Regno di Dio, Salvezza, Vita eterna

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All’inizio del suo Vangelo, Marco riassume in poche parole la ragione della venuta di Gesù: Gesù Cristo – Figlio di Dio (Mc. 1,1) – è venuto per annunziare (kerigma) (Mc. 1,38) il Vangelo di Dio (Mc. 1,14).

La Buona Novella che egli annunzia è la seguente: “Il tempo (kairòs) è compiuto (propriamente: è giunto alla sua pienezza: peplérotai, da pléroma),  e il Regno (Basileia = Sovranità, Signoria) di Dio è vicino” (Mc. 1,15).  L’annunzio del Vangelo viene fatto da Gesù in parabole, sia predicando per i villaggi della Galilea, sia operando ‘segni’ atti a comprovare la verità del suo messaggio, che rivela “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Mt. 13,35). All’annuncio si accompagna l’insegnamento, che avviene anche nelle sinagoghe, con la spiegazione del senso intimo delle Scritture e con l’interpretazione della Legge. Il Vangelo, infatti, non è un insieme di consigli morali, bensì la rivelazione, in Cristo, non solo del vero essere dell’uomo, ma anche di Dio: attiene all’ontologia. L’aspetto dottrinale dell’attività di Gesù è generalmente trascurato per privilegiare quello morale: invece è fondamentale nella sua predicazione, tanto che Gesù è chiamato Didàscalos = Maestro (Rabbi in ebraico); come riporta Marco, egli “li ammaestrava come uno che ha autorità e non come gli scribi” e tutti “stupivano della sua dottrina” (= didaké) (Mc. 1,22).

Gesù, dunque, ‘rivela’: egli cioè svela il senso nascosto della Scrittura e ciò significa che si è arrivati all’éschaton, perché solo alla fine si adempie ciò che fin dall’inizio era stato voluto. Nel tempo escatologico è la fine a far apparire in tutta luce il fine della storia. Egli istruisce per mezzo di parabole (Mc. 4,2) “secondo quello che potevano intendere” (Mc. 4,33), anzi “senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa” (Mc. 4,34) giacché ai discepoli “è dato di conoscere i misteri del Regno dei cieli, ma a loro (cioè ai non discepoli) non è dato.” (Mt. 13,11-13); “a quelli di fuori (tois exo), tutto è in parabole, affinché pur guardando non vedano, e pur ascoltando non comprendano, perché non si convertano e sia loro perdonato” (Mc, 4, 11-12). Con l’insegnamento Gesù vuole far conoscere “la via di Dio secondo verità” – come, per quanto ipocritamente, riconoscono i suoi avversari (Mt. 22,16; Mc. 12,14; Lc. 20,21) – affinché si possa “ereditare la vita eterna” (Mt. 19,16; Mc. 11,17; Lc. 18,18); questo è il vero nucleo dell’annunzio di Gesù: insegnare la via per giungere alla conoscenza della verità, verità che dà la vita eterna.

Gesù dunque spiega i misteri del Regno di Dio: il mistero pertanto non indica qualcosa di incomprensibile, come volgarmente si ritiene, ma può (e deve, se si vuole entrare nel Regno) essere conosciuto; la sua etimologia, infatti, rimanda al tacere, al silenzio, dunque a qualcosa di inesprimibile con parole; il suo contenuto allora viene comunicato – con la Rivelazione – attraverso figure metaforiche, parabole, simboli: in tal modo, da una parte, la Rivelazione è propriamente uno ‘svelamento’ di ciò che era nascosto; dall’altra, essa ‘ri-vela’, cioè copre nuovamente con il velo delle parabole e dei simboli il senso pieno di ciò che è comunicato. Dio, infatti, “ha deciso di abitare nella caligine” (1Re, 8,12) e dunque è necessario dissiparla per poter accedere alla visione di Dio. Poiché “non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce” (Lc, 8,17) – ed infatti Cristo ha deciso di rivelare “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”tutti siamo chiamati a conoscere il “mistero”, e quindi a tutti è rivolto l’annunzio del Regno; ciascuno, però, penetra nel “mistero” in misura diversa, secondo il proprio grado di comprensione; infatti, non solo bisogna recepire l’annunzio, ma bisogna porre attenzione a come si ascolta, a come si accoglie la parola, perché essa è come un seme che darà frutto a seconda del terreno su cui cade, con la conseguenza che “a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Lc, 8,18). E perciò la Rivelazione è proporzionata alle disposizioni di ciascuno: essa viene ‘spiegata’ ai discepoli perché si sono dimostrati disponibili e ricettivi al dono della conoscenza; agli altri, invece, a “quelli di fuori”, viene comunicata per mezzo delle parabole perché più sordi alla parola di Dio: e dunque “chi ha orecchi per intendere, intenda!”.

Tuttavia, né l’annunzio né l’insegnamento dottrinale sono da soli sufficienti a ottenere la vita eterna (o ad entrare nel Regno): a tal fine occorre la cooperazione di ciascuno di noi. Da qui l’invito a convertirsi e a credere nel Vangelo, senza di che la dottrina resterebbe sostanzialmente sterile e vuota  di significato. Più precisamente, Gesù invita non solo ad aver fede (pistis) nel Vangelo (Mc. 1,15), vale a dire nella Buona Novella da lui annunziata che il Regno di Dio è vicino, ma anche alla metànoia. La metànoia non si riferisce tanto alla sfera morale, come generalmente viene inteso, quanto piuttosto alla sfera intellettuale, spirituale: questo cambiamento (meta), infatti, coinvolge il noùs (mente, pensiero, intelligenza, intelletto, spirito) e indica perciò il cambiare mentalità, modo di essere, il modo di concepire Dio e il suo rapporto con il creato, per giungere ad un ri-orientamento complessivo del nostro essere ed agire. Va sottolineato che la sfera morale è subordinata a quella dottrinale, intellettuale, e da essa dipende: se così non fosse, la morale non avrebbe un fondamento su cui poggiare.

Gesù dunque è venuto per annunziare l’imminente venuta del Regno di Dio e conseguentemente ad invitarci ad effettuare una conversione radicale nel nostro modo di pensare e di vivere (metànoia) in forza della quale noi potremo comprendere in profondità l’annunzio di Gesù ed operare per accedere al Regno di Dio e per nascere alla vita eterna.

“Il tempo (kairòs) è compiuto e il Regno (Basileia) di Dio è vicino” (Mc. 1,15): cosa indica esattamente il ‘kairòs’, che noi traduciamo con la parola ‘tempo’?  E cosa è il Regno di Dio?

Il kairòs indicava per i Greci ‘ciò a cui si mira’, il ‘bersaglio’, ‘l’obiettivo’;  più tardi con tale termine si è indicato il ‘momento giusto’, il ‘tempo opportuno’ per una qualche attività o per un determinato evento. Esso rinvia ad una concezione qualitativa del tempo: mentre kronos indica il fluire indifferenziato degli avvenimenti, kairòs indica un momento chiave in questo fluire, ed è quel momento in cui si attua un disegno divino stabilito eternamente; il tempo (kronos) è da Dio riempito coi suoi kairòi, i momenti in cui si dispiegano gli eventi ordinati da Dio in vista di un suo piano: e sono questi momenti che danno un senso alla storia.

Ecco, dunque, il motivo per cui Marco usa qui il termine kairòs e non kronos; ed il kairòs per eccellenza è quello della venuta del Cristo, nella pienezza dei tempi. Infatti, in Lc, 4,17-21, Gesù – dopo aver letto nella Sinagoga il testo di Isaia che parla del Messia che sarà inviato ad annunziare un lieto messaggio – dice ai presenti: “Oggi si è adempiuta (= è giunta a pienezza) questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”; e Paolo ribadisce che “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio […] perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal. 4,4-5).

La ‘pienezza dei tempi’ indica perciò una rottura della uniformità del tempo ‘cronologico’, lascia intravvedere un tempo qualitativamente diverso dal tempo ordinario in quanto ‘riempito’ da un evento del tutto straordinario: la Rivelazione piena di Dio in Cristo e l’inizio del tempo escatologico, nel quale la fine mette in luce il fine di tutto ciò che si è  dipanato nel corso del tempo e fa comprendere il senso del tempo e della storia. Gesù annunzia che la signoria di Dio si sta avvicinando, anzi è già “tra noi” e “dentro di noi”, ma in modo parziale, come indicato dalle parabole della crescita che suggeriscono chiaramente che la pienezza del Regno – di cui Gesù ha gettato il seme –  è destinata ad attuarsi più in là nel tempo, anzi in un non-tempo, con la parusìa. Il Regno ha perciò anche una dimensione escatologica, ed infatti “il Figlio prediletto” è stato inviato “per ultimo” (èskaton; Mc. 12,6).

Resta da chiarire in che cosa consista la salvezza e in che modo la si ottiene.

Ripetutamente nel Nuovo Testamento è affermato che Gesù è venuto nel mondo per salvarlo: il nome “Gesù”, del resto, significa proprio “Dio salva”.

In linea generale, “salvezza” significa “conservazione”, “liberazione”: questa liberazione può essere intesa a due livelli: dal punto di vista religioso, essa consiste nel liberare l’uomo dal peccato ed ha quindi valenza soprattutto etica; dal punto di vista metafisico, consiste propriamente nel sottrarre la creatura ai vincoli della contingenza e del relativo: ciò è possibile solo mediante la manifestazione dell’Assoluto nel Relativo (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1,14)), in particolare in quell’essere centrale del creato che è l’uomo, e quindi mediante la presa di coscienza della sua natura anche divina – di cui parla, ad es., la seconda lettera di Pietro (1,4): “Ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina” – cioè mediante l’unione tra Dio e mondo; da ciò consegue che è l’incarnazione – mediante l’unione di Dio col mondo – a  garantire la salvezza.

Va precisato che, metafisicamente, l’incarnazione non è un ‘evento’, e come tale posto nel tempo, ma è necessaria e onnitemporale in quanto Dio è da sempre e per sempre unito al mondo, è costitutivamente unito ad esso, senza di che il mondo non sarebbe: in Dio, infatti, non può esserci mutamento (Ego sum dominus et non mutor). Ciò non toglie che, dal punto di vista della natura – poiché essa è caratterizzata dal mutamento  – vi siano momenti (kairòi) massimamente prossimi alla incarnazione della divinità e, poiché tutto nella natura è nella gradualità, Dio sia connesso in modo eminente con l’umanità in forza della incarnazione storica in Cristo.

Giovanni esprime ciò affermando non solo l’eternità del Verbo e che tutto è stato fatto per mezzo di lui, ma anche che il Verbo era nel mondo (Gv. 1,10), e che poi “si fece carne e venne ad abitare (‘pose la tenda’) in mezzo a noi” (Gv. 1, 14): il Verbo, cioè – come dice Giovanni Scoto nella Omelia sul Prologo di Giovanni – sussiste ed è da sempre nell’universo creato”: in termini teologici, Dio è eternamente unito al mondo. Pertanto, il Prologo di Giovanni si riferisce sia alla incarnazione onnitemporale, sia alla incarnazione specifica e storica del Logos in Gesù, apparsa nella pienezza dei tempi.

Poiché dunque l’incarnazione è onnitemporale e con essa Dio è unito a tutto il creato, ne deriva che la salvezza non riguarda solo l’uomo, bensì tutta la creazione. Ed infatti il Signore ‘ama tutte le cose esistenti e risparmia tutte le cose, perché le ha chiamate all’esistenza e tutte sono sue e il suo spirito incorruttibile è in tutte le cose’; (cfr. Sap. 11, 24-26); e san Paolo afferma che tutta “la creazione nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm. 8, 20-21). Il Regno di Dio è in mezzo a noi (e in noi) da sempre e per sempre.

Nel Nuovo Testamento si parla di Regno (di Regno di Dio, di Regno dei cieli, di Regno del Figlio dell’uomo), di salvezza, di vita eterna e queste espressioni sembrano essere equivalenti ed avere lo stesso significato generale di salvezza. E così intendono i discepoli: infatti, quando l’uomo ricco, che gli aveva chiesto cosa fare per avere la vita eterna,se ne andò afflitto perché aveva molti beni”, Gesù afferma per tre volte la difficoltà di “entrare nel Regno”: al che i discepoli, sbigottiti, commentano “E chi mai si può salvare?”. (cfr. Mc. 10,26).

Tuttavia, nel Nuovo Testamento, se da una parte il termine salvezza ha un’accezione generale che ingloba sia la salvezza in senso stretto, di cui diremo più avanti, sia il Regno di Dio, sia la vita eterna, dall’altra si deve riconoscere anche o che le tre espressioni hanno due sensi, uno “inferiore” e uno “superiore”, oppure che esiste una differenza tra Regno o salvezza in senso stretto, da una parte, e vita eterna, dall’altra; tale differenza (o tale duplice senso) la possiamo cogliere dall’esame dell’episodio appena ricordato del ricco che chiede a Gesù cosa deve fare per ottenere la vita eterna (Mt.19, 16-30; Mc.10, 17-31; Lc.18, 18-30). In un primo momento Gesù si limita ad invitarlo all’osservanza della legge mosaica e in particolare dei comandamenti in essa contenuti; quando il giovane ribatte di aver sempre fatto quanto prescritto dalla Legge, Gesù gli ingiunge – se vuole essere perfetto e quindi ottenere la vita eterna come da lui richiesto – di vendere tutti i suoi beni, dare il ricavato ai poveri e porsi alla sua sequela.

Da ciò si desume che:

1)   l’osservanza dei precetti etici e religiosi della Legge mosaica, con la conseguente liberazione dal peccato (“il peccato è violazione della Legge”: 1Gv. 3,4; “Il salario del peccato è la morte”: Rom. 6,23), permette di entrare nel Regno di Dio e di raggiungere la salvezza (in senso stretto); possiamo definirla come la “via dell’azione” o “via del merito” in quanto si risolve in un “agire” in conformità alle prescrizioni della Legge. La salvezza – che è il frutto dell’amore verso Dio, e cioè del desiderio di unità con lui – consiste nella reintegrazione nello stato edenico originario, proprio del primo Adamo prima del peccato; l’unità con Dio non è tuttavia ancora realizzata: infatti, la Legge non è “capace di conferire la vita” (Gal. 3, 21);

2)   il distacco da tutto ciò che attiene al mondo – beni e affetti – e il porsi alla sequela di Cristo consentono di seguire la via di perfezione per “avere in eredità la vita eterna”. La vita eterna consiste nella conoscenza di Dio Padre e del Figlio da lui mandato nel mondo (“Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”; Gv. 17,3). La via indicata da Gesù Cristo consente – tramite la presa di coscienza della verità dell’Incarnazione, cioè che egli è il Verbo incarnato – di conseguire la vita eterna: “Chiunque riconosce che Gesù è il figlio di Dio, Dio dimora in lui e lui in Dio” (1Gv. 4,15); “Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita è nel suo Figlio” (1Gv. 5,11); “Possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio” (1Gv. 5,13). Solo coloro che comprendono la profonda realtà dell’incarnazione di Dio in Cristo e, tramite lui, nel mondo, comprenderanno la natura anche divina dell’uomo, la identità essenziale tra Dio e uomo. Questa conoscenza di Dio – e perciò questa identificazione con lui, in conformità alla preghiera di Gesù “affinché siano una cosa sola in noi”(“ut in nobis unum sint”:  Gv. 17,21) – è la vita eterna. E del resto già nel libro della Sapienza è detto che “Conoscerti (conoscere, cioè, la Sapienza divina, più tardi identificata con il Logos) è perfetta giustizia, conoscere la tua potenza è radice di immortalità” (Sap. 15,3).

Possiamo perciò definire questa come la “via della Conoscenza” (di cui la Fede è una modalità), alla quale però l’uomo non può pervenire autonomamente, solo con le proprie forze, in quanto “ciò è impossibile agli uomini” (Mc. 10,27), bensì in virtù della Rivelazione e ‘Deo iuvante’, cioè con la Grazia di Dio, in quanto “la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv. 1,17). E’ bene chiarire che la Conoscenza non si contrappone all’Amore, anzi la Conoscenza perfetta è il perfetto Amore, e viceversa: entrambi, del resto, mirano all’Unità. Dio, infatti, è Luce (Gv. 1,9; 1 Gv. 1,5), ma è anche Amore (1 Gv. 4,8): e come “chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio”, così anche “chi sta nell’Amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv. 4,15-16). Pertanto, “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore” (1Gv. 4,8).

Si spiega così la ragione della incarnazione/rivelazione di Cristo: se la Legge fosse stata idonea a far ereditare la vita eterna, l’incarnazione di Dio in Cristo sarebbe stata superflua e priva di senso: “mestier non era parturir Maria”. E’ da aggiungere che proprio in forza della onnitemporalità dell’incarnazione di Dio l’azione salvifica di Cristo ha valore ed efficacia universale, quindi in ogni luogo e in ogni tempo, il che permette che anche gli uomini vissuti prima di Cristo non siano esclusi dalla possibilità di conseguire la vita eterna.

La vita eterna è dunque incomparabilmente superiore alla salvezza; essa, inoltre, non viene dopo il tempo, non è temporale, non ha durata, ma è una dimensione più profonda dell’attuale vita e si può conseguire qui e adesso (“noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”: 1Gv. 3,2) a condizione che operiamo quella metànoia, quella ‘nascita dall’alto’, quella trasformazione mediante il rinnovo della nostra mente (cfr. Rom. 12,2) richiesta con forza da Gesù; anzi, se non si consegue adesso non si conseguirà più, perché dopo il confine della morte personale non c’è più la possibilità di cambiare; questo è possibile soltanto se il velo che ci copre gli occhi è tolto mentre siamo in vita, come accadde all’apostolo Paolo. Al dopo bisogna pensarci prima.

Alessandro Barilà