Le opere di carità nell’Islam e nel Cristianesimo

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Nella predicazione iniziale di Maometto a Mecca, che affermava l’esistenza di un unico Dio, molto importante era anche il richiamo ad una maggiore giustizia sociale, con la condanna dei ricchi mercanti, avidi e indifferenti ai poveri. Su questo aspetto della sua predicazione ha certo inciso l’esperienza personale di Maometto, rimasto precocemente orfano (il padre, che era un mercante, morì prima che egli nascesse e la madre quando aveva appena sei anni).

La predicazione del periodo medinese, invece, fu indirizzata soprattutto alla organizzazione della comunità che stava nascendo a Medina: perciò, le sure di questo periodo contengono una serie di norme legali dettate da Allah per regolare tutti gli aspetti della vita associata e che riguardano anche il comportamento verso i poveri, che è disciplinato con norme precise.

La fede.

I punti essenziali della fede islamica consistono nel: 1) credere in Allah; 2) credere nei suoi Angeli; 3) credere nei suoi Libri (Torah, Salmi, Vangeli; il Corano, tuttavia, contiene l’ultima e definitiva rivelazione di Allah, e sostituisce i precedenti libri sacri); 4) credere nei suoi Inviati; Abramo, Mosè, Davide, Gesù, Maometto: essi hanno portato ciascuno un Libro, contenente lo stesso e identico messaggio; 5) credere nella risurrezione e nella vita futura; 6) credere che tutto, sia il bene che il male, proviene dalla volontà divina (predestinazione).

Il culto.

Tuttavia, poiché la fede è un fatto intimo di ciascuno, essa deve essere testimoniata dal comportamento esteriore, al quale l’Islam dà un’importanza fondamentale: è per questo che si afferma generalmente che l’Islam si basa sull’ortoprassi.

Il culto si fonda su cinque norme essenziali: infatti, un hadith del profeta afferma che “l’Islam si fonda sopra cinque pilastri”: 1) la professione di fede; 2) la preghiera; 3) l’elemosina rituale; 4) il digiuno nel mese di Ramadan; 5) il pellegrinaggio a Mecca.

Il termine zakàt implica l’idea di purificazione: con l’elemosina, infatti,  vengono purificati sia i beni del contribuente, sia il suo cuore dall’egoismo e dall’attaccamento alle ricchezze, ed anche il cuore di colui che riceve viene purificato dall’invidia e dal risentimento. Questa concezione è basata sull’idea che il vero proprietario di tutte le cose è Dio e che pertanto la ricchezza è dono di Dio, il quale ha stabilito che una parte di essa vada ai poveri, che dunque hanno un vero e proprio diritto sui beni dei ricchi (17,26; 51,19; 70,24-25; 6, 141): la zakàt, perciò, è obbligatoria ed esprime, mediante il sostegno ai bisognosi, il culto di ringraziamento a Dio per i beni ricevuti; con il pagamento della zakàt il musulmano salda il debito che ha con Dio per tutto ciò che gli ha dato.

Per quanto riguarda la distribuzione dell’elemosina legale, il testo fondamentale è la Sura 9 al versetto 60, che elenca le otto categorie di persone che lo Stato islamico deve soccorrere mediante i proventi della zakàt: “Le elemosine sono per i bisognosi, per i poveri, per quelli incaricati di raccoglierle, per quelli di cui dobbiamo guadagnarci il cuore, per il riscatto degli schiavi, per i debitori, per la lotta sul sentiero di Allah e per il viandante”. L’elemosina legale, dunque, si presenta più che altro come una forma di sicurezza sociale in una società musulmana.

Nei primi secoli dell’islam, al tempo dei califfati, la raccolta e la distribuzione dell’elemosina legale erano gestite dallo Stato. Oggi, invece, in alcuni Paesi provvede ancora lo Stato, almeno in parte; in altri Paesi, invece, provvede direttamente il singolo ad assolvere a quest’obbligo previsto dalla legge coranica. In Occidente la raccolta e la distribuzione dell’elemosina avviene prevalentemente tramite enti di beneficenza e le moschee.

Oltre alla elemosina legale obbligatoria (zakàt) l’islam prevede anche l’elemosina volontaria (sàdaqa).

Anche l’elemosina volontaria, come la zakàt, è dal Corano disciplinata stabilendone i beneficiari e l’ordine di priorità (2,215): essa va data anzitutto ai genitori, quindi ai parenti, poi agli orfani, ai poveri, ai viandanti. I poveri e i mendicanti devono chiedere con discrezione, senza importunare; anzi, la tradizione disapprova chi chiede l’elemosina. Il Corano prevede anche che alla festa di chiusura del pellegrinaggio a Mecca i bisognosi abbiano la loro porzione del montone sacrificato (22,28), mentre la tradizione prevede che ogni musulmano offra l’elemosina (in grano, orzo o datteri) alla fine del Ramadan.

Bisogna anche riconoscere, però, che, malgrado questa dominante mentalità formalistica, alcuni hadìth hanno una maggiore valenza etica: ad esempio, gli hadìth seguenti: “Se sorridi incontrando tuo fratello, gli raccomandi ciò che è bene, lo metti in guardia contro il male, o guidi chi ha preso una strada sbagliata, aiuti il cieco sul suo cammino, togli dalla via un oggetto pericoloso, tutte queste azioni sono considerate come carità”; “Ogni azione di bontà è carità”. Se non si è in grado di aiutare i poveri concretamente, bisogna dir loro almeno una parola gentile (17,28).

Chi fa l’elemosina si assicura il Paradiso, e ”la misericordia di Dio è vicina a chi fa il bene” (7,56), mentre l’avaro andrà all’inferno; l’elemosina non deve essere ostentata; quella fatta in segreto ai poveri fa espiare alcuni peccati (2, 271) quali l’inosservanza del digiuno del Ramadan (2,184); l’avere spergiurato (5,89); l’uccisione della selvaggina durante il pellegrinaggio, poiché si è in stato sacrale (5,95); il ripudio della moglie mediante una formula preislamica di ripudio (58,4); ecc..

Pur raccomandando di soccorrere i bisognosi ed elogiando chi lo fa, l’islam proibisce la eccessiva generosità. L’elemosina non deve essere eccessiva, bensì commisurata alle proprie disponibilità: “Non esagerate in prodigalità, perché Allah non ama i prodighi” (6,141; cfr. 17, 26-29); anzi, il Corano prescrive di dare in elemosina solo “il superfluo” (2,219); la prodigalità è condannata come l’avarizia.

L’Islam è infatti la religione della misura, del giusto mezzo, che giudica virtuoso quel che è mediano e rifugge da precetti troppo rigidi. L’Islam è lontano da una morale ‘ascetica’ o ‘eroica’: le esortazioni di Gesù  (amare i propri nemici e pregare per loro e quando hanno fame rifornirli dei mezzi necessari a sfamarli; odiare i propri genitori e i fratelli e la propria stessa anima; a chi prende la tunica lasciare anche il mantello; dare senza misura a qualunque bisognoso chieda; porgere l’altra guancia a chi ti colpisca; non opporsi in alcun modo al malvagio; fare del bene a chi si comporta male nei tuoi confronti;  lasciare tutti i propri beni, darli ai poveri e porsi alla sequela di Gesù, ecc.) appaiono irragionevoli e incomprensibili ai musulmani, in quanto ritenute smisurate e impossibili da mettere in pratica: al contrario, il Corano afferma che “Allah vuol farvi le cose facili e non già difficili” (2,185).

Fondamento dell’obbligo di soccorrere il povero è, come sempre nell’Islam, la sottomissione alla volontà di Allah. Infatti, la parola islam (da cui muslim = musulmano) ha un significato generale di sottomissione alla volontà di Dio, di cui l’uomo non può che essere “‘abd” = “servo”. Il bene deve essere compiuto perché così vuole Allah: egli non accetta le offerte di chi non crede in Lui e nel suo Messaggero (9,53-54): “le opere di quelli che non credono nel loro Signore sono come cenere su cui infuria il vento in giorno di tempesta: non potranno tenersi nulla di ciò che avranno guadagnato” (14,18).

Il fedele musulmano non è chiamato ad amare il prossimo: la beneficenza del musulmano non è altro che un atto di culto dovuto a un Dio che lo reclama e che rimane isolato in una assoluta trascendenza, è un atto di sottomissione alla volontà di Allah per conquistare dei meriti in vista della salvezza. Inoltre, l’obbligo dell’elemosina sussiste soltanto nei confronti dei musulmani: il “prossimo” è solo il credente, colui che, condividendo la medesima fede in Allah, appartiene alla umma, alla comunità dei fedeli.

In conclusione, possiamo dire che il Corano raccomanda di fare il bene mediante il versamento dell’elemosina rituale e di quella volontaria, ma proibisce l’eccessiva generosità. Il musulmano, inoltre, è tenuto a soccorrere solo chi appartiene alla umma, cioè alla comunità islamica: per l’Islam il prossimo è solo chi crede in Allah. Il fondamento della vita morale (e quindi anche dell’elemosina) consiste nella sottomissione a Dio e nell’obbedienza ai suoi precetti comunicati al suo messaggero Maometto. Per il Corano esiste un solo peccato veramente grave che sarà punito con l’inferno: il rifiuto di sottomettersi a Dio.

Vediamo adesso le principali differenze tra Cristianesimo e Islam.

Abbiamo già visto che il contenuto dottrinale (il “credo”, la “fede”) della religione islamica è semplicissimo: consiste nel credere in Dio, nei suoi Angeli, nei suoi Libri, nei suoi Inviati, nella risurrezione e nella vita futura, che tutto – sia il bene che il male – derivi da Dio.  Anche il culto, che non prevede né riti, né sacramenti, né sacerdozio, è altrettanto semplice: esso si risolve tutto nella preghiera rituale, nell’elemosina rituale, nel digiuno durante il mese di Ramadan, nel pellegrinaggio a Mecca. Per ottenere la salvezza – che è il fine di tutte le religioni – è sufficiente rispettare questi precetti legali e fare il bene ed evitare il male. La morale, infine, a parte qualche precetto relativo alla sfera individuale (quali la sincerità, la modestia, la sopportazione, ecc.), si risolve nell’osservanza di comportamenti sociali, utili essenzialmente a garantire l’ordinata vita sociale: donde il divieto dell’omicidio, del furto, dell’usura, della calunnia, dello sfruttamento dei beni degli orfani, ecc..

Il Cristianesimo, invece, è molto più esigente. Mentre nell’Islam  il fondamento della vita morale (e quindi anche dell’elemosina) consiste nella sottomissione a Dio, nel Cristianesimo, invece, il fondamento della vita morale è la carità: il soccorrere il bisognoso è un’espressione dell’amore verso Dio e acquista significato e valore soltanto se avviene all’interno della logica dell’amor di Dio, che vuol dire desiderio di unirsi a Dio; nell’Islam invece sarebbe blasfemo pensare di poter avere la visione di Dio o addirittura essere una sola cosa con Dio.

Nel Cristianesimo l’osservanza dei precetti etici e religiosi non è affatto in grado di farci ottenere la vita eterna. La vita eterna, infatti, consiste nella conoscenza di Dio Padre e del Figlio da Lui mandato nel mondo: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv. 17,3) e quindi nella identificazione con la Trinità divina (“affinché siano una sola cosa in noi” = “ut in nobis unum sint”; Gv. 17,21), il che è impossibile ed anzi una blasfemia per l’Islam, per il quale Dio resta assolutamente separato e inconoscibile. Per giungere alla vita eterna non c’è che una via: Gesù Cristo, il Verbo incarnato. Il che significa che alla vita eterna si perviene solo attraverso la conoscenza della verità dell’Incarnazione, cioè riconoscendo la natura anche divina dell’uomo, e realizzando – con l’aiuto di Dio –  l’unità con Dio. Il Dio cristiano è Amore, e l’Amore è essenzialmente dono di sé: infatti, Dio – che è l’Essere – chiamando il mondo all’esistenza, cioè donandogli l’essere, ha donato sé stesso al mondo, lo ha reso partecipe dell’essere e quindi della natura divina: da qui deriva l’identità essenziale tra Dio e uomo. Il comandamento supremo dato all’uomo è l’amore verso Dio; dopo di esso c’è quello di amare il prossimo. A livello della creatura, l’amore è desiderio, tendenza all’unità: io posso e devo amare il prossimo solo in Dio, cioè riconoscendo in lui l’immagine divina che è in tutti gli uomini: solo in tal modo saremo “una cosa sola”, “perfetti nell’unità” (Gv. 17,22-23).  E’ bene chiarire che l’amore di cui parla Cristo non è un sentimento: se così fosse, il comando di Gesù non avrebbe senso perché il sentimento non può essere suscitato dalla volontà; invece, l’amore è soprattutto intelletto e volontà, e perciò dobbiamo amare gli altri allo stesso modo in cui Egli ci ha amati (Gv. 15,12), per essere una sola cosa in Dio.

Di conseguenza, nel prossimo, e quindi anche nel povero, il cristiano riconosce l’immagine di Dio che si è fatto carne e nostro fratello; “Ogni volta che avete fatto queste cose (cioè, le opere di carità) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40); il cristiano non deve limitarsi a soccorrere il povero, ma deve amarlo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv. 15,12); la sollecitudine per i poveri, e per il prossimo in generale, ha valore solo se è espressione dell’amore verso Dio. Non basta amare il prossimo, bisogna amarlo in Dio, e non contro Dio, come fanno i moralisti atei. Di per sé, tutte le opere buone verso il prossimo non ci avvicinano di un passo alla salvezza; prima di andare verso le periferie delle città è necessario andare al centro del proprio essere; al di sopra di ogni efficientismo attivistico, anche apostolico e missionario, c’è l’amore verso Dio: non si dovrebbe dimenticare che nel Cristianesimo il primato non è dell’azione bensì dell’ascolto e della contemplazione: è Maria colei che si è scelta la parte migliore, non Marta.

Alessandro Barilà