Democrazia, partecipazione, legge elettorale

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Venerdì 30 giugno nel Complesso monumentale San Pietro di Marsala, si è tenuto il convegno sul tema “Crisi della democrazia e Dottrina sociale della Chiesa”, promosso dal Movimento Cristiano Lavoratori (MCL) e dalla Diocesi di Mazara del Vallo, il cui Vescovo monsignor Domenico Mogavero ha introdotto il convegno stesso. Di seguito la relazione che ha tenuto Pietro Giubilo, Vice Presidente della Fondazione Italiana Europa Popolare e Presidente della Fraternitas Aurigum.

La Fraternitas Aurigarum

I presupposti della crisi della democrazia

Da più parti si vanno diffondendo analisi sulla crisi della democrazia.

L’argomento non è nuovo ed è soggetto alle interpretazioni più varie, se si pensa che la stessa Commissione Trilaterale (organismo élitario fondato a metà degli anni ’70 dal miliardario David Rockfeller e luogo di incontro annuale tra i massimi detentori del potere economico) nel 1975 pubblicò un volume con quel titolo. Più recentemente, dal 2007, anche il settimanale inglese The Economist, di proprietà di grandi famiglie di imprenditori, stampa annualmente un Rapporto sullo stato di salute delle democrazie nel mondo, intitolato Democracy Index.

Una riflessione su questa importante conquista della politica ed i problemi dell’oggi, richiede, quindi, la necessità di soffermarsi su elementi di orientamento che vadano al fondo della questione.

Per comprendere il senso complessivo della crisi della democrazia non si può non riferirsi a tre aspetti che esercitano la loro influenza nella condizione odierna dell’uomo nella società contemporanea.

Innanzitutto il contesto sociale nel quale l’uomo svolge oggi la sua vita di relazione, in gran parte dei Paesi Occidentali sembra dare ragione a chi ha classificato il ‘900 come il secolo nel quale, massimamente, si è verificato lo scontro tra “verità imposte dall’alto” e libertà . Il secolo delle ideologie, pur essendo terminato, ha lasciato, comunque, in eredità al Ventunesimo, una ultima utopia, una nuova forma di assolutismo: quello della globalizzazione, nella quale si è realizzato il primato dell’economia sulla politica, soprattutto nella sua deriva finanziaria. Sugli aspetti nefasti di questo primato e sulle sue derive di carattere sociale (impoverimento dei ceti medi, scarto di fasce povere, diseguaglianze, mercificazione del lavoro, danni ambientali) gli interventi di Papa Francesco sono state le denunce più chiare e si connettono con l’esortazione che “il denaro deve servire e non governare”. Ed è questa la causa di una prima ferita della democrazia.

Si è, inoltre, affermato un potere con un forte carattere relativista che si accompagna all’idea che non essendoci più verità imposte, allora non c’è più nessuna verità. E, tuttavia la conflittualità e la inconciliabilità delle posizioni si producono e si accrescono proprio perché si afferma la convinzione che “la persona umana non è un essere capace di verità”. Il pontificato e l’opera di Papa Ratzinger hanno richiamato, soprattutto in Occidente , questa drammatica realtà che ha comportato lo sradicamento dell’uomo dalla sua realtà naturale. La società perde la sua forma e diviene liquida, cioè si adatta al potere prevalente ed alle sue esigenze che divengono totalizzanti. L’uomo ne subisce le conseguenze. Vaclav Havel, un drammaturgo che si oppose al regime comunista in Cecoslovacchia e poi ne divenne Presidente, in un suo libro del 1978, Il potere dei senza potere, anticipava e descriveva questo nuovo totalitarismo : “E’ insito nel sistema post totalitario il coinvolgere ogni uomo nella struttura del potere, non perché vi realizzi la propria identità umana, ma perché rinunci ad essa a vantaggio dell’identità del sistema, cioè perché collabori all’automatismo e diventi un servo della sua finalità, perché ne condivida la responsabilità e si trovi coinvolto e invischiato come Faust con Mefistofele”. In un altro scritto aveva avvertito: “Invece della libera collaborazione alla vita economica e politica e del libero sviluppo spirituale, all’uomo è offerta la possibilità di decidere liberamente solo il tipo di frigo o di lavatrice da acquistare”. Oggi potremmo aggiungere il tipo di smartphone. L’uomo che subisce il potere non è più in grado di far vivere una democrazia.

Infine l’abbandono della legge naturale. Come ha più volte sottolineato, a suo tempo, l’attuale Papa emerito, questa rinuncia espone la legislazione positiva ad essere un compromesso tra diversi interessi e a trasformare in diritti gli interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale. Anche su di un altro piano, il rispetto della legge naturale appare una salvaguardia della democrazia. Essa, in definitiva rappresenta “il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica”. Nel febbraio del 2007, ai partecipanti ad un congresso internazionale sull’argomento, Papa Ratzinger aggiungeva un altro concetto strettamente connesso: “Non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito. La tecnica quando riduce l’essere umano ad oggetto di sperimentazione, finisce per abbandonare il soggetto debole all’arbitrio del più forte. Affidarsi ciecamente alla tecnica come all’unica garante di progresso, senza offrire nello stesso tempo un codice etico che affondi le sue radici in quella stessa realtà che viene studiata e sviluppata , equivarrebbe a fare violenza alla natura umana, con conseguenze devastanti per tutti”. Privare la democrazia di una base etica e fondarla su una idea di progresso tecnologico significa privarla di solidi ed essenziali riferimenti.

Carattere antropologico della democrazia

Con questa premessa ho inteso chiarire un elemento essenziale per individuare quel retto concetto di democrazia che il pensiero cattolico ha elaborato, quello che io definirei il carattere antropologico della democrazia, cioè il rapporto tra forma democratica di governo e la dimensione spirituale e civile del popolo.

In uno dei momenti più drammatici della nostra storia Papa Pacelli, Pio XII, ne offrì una straordinaria definizione: il 24 dicembre del 1944, quando la guerra mondiale aveva già prodotto il suo immenso carico di tragedie e ancora ne doveva produrre, nel radiomessaggio natalizio ai “popoli del mondo”, espresse un concetto fondamentale che doveva “creare nel popolo stesso efficaci garanzie“, al fine di realizzare una “sana democrazia, confacente alle circostanze dell’ora presente” ed anche al fine di consentire “all’uomo , come tale … esserne e rimanerne il soggetto , il fondamento e il fine”.

In quell’importante messaggio, Papa Pacelli sottolineò come ai cittadini competesse di “esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere cioè costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato”; in quanto all’esigenza di reclamare “più democrazia e migliore democrazia”, affermava sempre il Papa, occorreva “mettere sempre più il cittadino in condizione di avere la propria opinione personale e di esprimerla e farla valere in una maniera confacente al bene comune”.

Era molto di più dell’assioma liberista del “no taxation without representation”, che ancora oggi viene presentato come massima espressione concreta della liberaldemocrazia. Papa Pacelli aggiungeva una straordinaria distinzione tra “popolo” e “ massa”, avvertendo che “della forza elementare della massa , abilmente maneggiata ed usata , può pure servirsi lo Stato”, e, con essa, dunque, “ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo “; concludeva che “ la massa … è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza”. In quel tempo il pericolo maggiore era individuato negli Stati totalitari e tuttavia, nel prosieguo del secolo, si è andato affermando un potere meno evidente, ma altrettanto volto ad esercitarsi in modo assoluto.

Anche Papa Montini, Paolo VI, insistette sui rischi di una riduzione del popolo a massa e in più occasioni invitò ad essere vigili sulle possibili involuzioni: nel 1971, nell’”Octogesima adveniens”, avvertiva: “Occorre inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune”. Non solo metteva in guardia “contro l’ideologia che si rifà al marxismo”, ma indicava anche i limiti della cultura liberale: “ I cristiani facilmente dimenticano che alla sua stessa radice il liberalismo filosofico è una affermazione erronea dell’autonomia dell’individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell’esercizio della sua libertà”.

Questi indirizzi e avvertimenti sono fondamentali per comprendere la condizione attuale nella quale globalizzazione e relativismo, potere egemonico delle forze economico-finanziarie e privazioni di radici, esercitano una nuova forma di assolutismo riducendo il popolo a massa e con ciò determinano la crisi e la prima causa della attuale degenerazione della democrazia. Si produce quella che può essere definita una ”devastazione antropologica”, soprattutto per quanto si riferisce ai temi della bioetica e del senso della vita. E’ l’esito finale di quella “completa positivizzazione del diritto”, che a sua volta, come ha ben analizzato Ernt-Wolfgang Boeckenfoerde, nello Stato liberale produce la negazione degli stessi valori sui quali era stato generato.

Partecipazione e postdemocrazia

Il documento di Papa Pacelli e quelli degli altri Pontefici intervenuti sul tema esprimevano, in sintesi, l’essenziale rapporto tra le istituzioni democratiche e una società fondata sui valori naturali e la necessità che la rappresentanza comprendesse tale rapporto e, soprattutto, l’essenzialità della partecipazione. Il cittadino, cioè, deve aver parte nelle scelte.

Essa è definita dalla Dottrina sociale “uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici”. Ed inoltre si afferma che : “Ogni democrazia deve essere partecipata”. Questo concetto viene esteso anche ai partiti politici che “sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere alla formazione delle scelte politiche”. A questa, come poi si vedrà in seguito, si è andata sostituendo la comunicazione che è altra cosa e che assegna all’uomo un ruolo negativo, cioè di mero recepimento.

La partecipazione, come poi accenneremo, è certamente esercizio del voto, ma non si riduce solo a questo. Essa non può risolversi, infatti, in una mera contabilizzazione dei voti e, alle forze politiche, spetta il dovere di attuare e rispettare il principio partecipativo. Senza di esso i partiti abbandonano la loro funzione di rappresentanza e di comunicazione delle istanze dei cittadini, per trasformarsi in strumenti personalizzati che vanno ad identificarsi con i loro leader, rinunciando alla funzione di intermediazione e di sintesi delle varie istanze. Come ha scritto a suo tempo Giuseppe De Rita, il risultato di questo indirizzo prevalente è stato che “le sedi e le forme della rappresentanza e della partecipazione alle decisioni sono diventate ininfluenti, a tutto vantaggio di scelte decisioniste … con un progressivo personale allontanamento dalla complessità sociale e di un impoverimento secco della vita collettiva, nella politica come nelle istituzioni” . Siamo alla “verticalizzazione del potere”.

Di conseguenza uno degli aspetti delle riduzione della democrazia si presenta, in ultima analisi, come perdita di sovranità da parte del popolo. A volte ciò avviene senza negare la formalità elettorale. Colin Crouch, un politologo inglese, ha rilevato come la democrazia liberale, affermatasi in Occidente, insiste soprattutto sulla partecipazione elettorale, “come attività politica prevalente per la massa, lasciando ampio spazio ai potentati economici”. “ Ciò produce, ha scritto a riguardo di ciò che definisce postdemocrazia, un mutamento sostanziale nella democrazia [intesa] come governo del popolo sovrano, che si attua attraverso la più ampia e consapevole partecipazione dei cittadini alla politica e non soltanto nell’ambito del momento delle elezioni”. “Il dibattito elettorale, ha osservato, è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi”. “La politica, concludeva, viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite, che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”.

Questo spiegherebbe l’influenza dei media nelle campagne elettorali e il restringersi dei sistemi elettorali intorno al problema della governabilità e non della rappresentanza.

Emilio Gentile ha efficacemente analizzato questa evoluzione affermando che si tratta dell’instaurarsi di una “democrazia recitativa” che così definisce : “E’ quella democrazia che ha per palcoscenico lo Stato, come attori i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano che entra sul palco solo per la scena delle elezioni”. Lo storico, autore di numerose opere sulla condizione delle istituzioni, precisa con grande efficacia come questa situazione sia alla base di una disaffezione verso lo stesso momento elettorale: “[il popolo] ora comincia a disertare il proscenio. E tra una recita e l’altra continuano a prevalere le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. Non mi riferisco solo all’Italia”.

Cosa e come debbono scegliere i cittadini

Alexis de Tocqueville nella sua opera più conosciuta, La democrazia in America, esprime un concetto essenziale: “Il popolo partecipa alla formazione delle leggi , perché sceglie i legislatori”. In una formulazione anche più complessa, il filosofo francese pone, innanzitutto, in evidenza l’obbiettivo più rilevante della democrazia e di ciò che compete massimamente ai cittadini: la scelta dei legislatori. Invece oggi al popolo è demandata solo la scelta per l’avvicendamento dei detentori del potere, a questo porta l’esasperazione dei sistemi elettorali volti soprattutto a indicare chi governerà e non chi andrà a rappresentare.

La ridotta partecipazione elettorale si evidenzia come rinuncia a questo diritto: è un fenomeno che colpisce Paesi di consolidata democrazia; si è visto come al primo turno delle recenti elezioni parlamentari francesi abbia partecipato meno del 50 per cento degli aventi diritto e poco più del 40 al ballottaggio e come sia stato considerato un successo.

A questo proposito possiamo far maggiore riferimento a ciò che è più vicino, cioè all’Italia. Quelli più anziani rammentano che nei primi anni del dopo guerra l’esercizio del voto era considerato un dovere, rispetto al quale erano previste sanzioni ancorché leggere (es. l’iscrizione “non ha votato” nel certificato di buona condotta ), disapplicate e, poi, abolite nel 1993. In queste ultime elezioni amministrative ha votato, al ballottaggio solo il 46 per cento degli aventi diritto. Nella Francia del “trionfo” di Macron, definito, senza imbarazzo, dalla stampa fiancheggiatrice, il “monarca repubblicano”, si riparla di voto “obbligatorio”. Peraltro esistente in Australia e, in Europa, in Belgio, Grecia, Lussemburgo e Cipro.

Invece di ispirare l’idea che votare è il primo dovere sociale, si sviluppano strampalate idee circa ipotesi di videocrazia, cioè di una democrazia digitale. Ne ha denunciato l’effetto nefasto mons. Mario Toso: “In un contesto di videocrazia e di dipendenza da sondaggi condotti anche on line, la democrazia rischia di essere travolta da una opinione pubblica disinformata e manipolata”. E questo può capitare, soprattutto, aggiungo io, in tempi di concentrazioni editoriali e televisive. “Il mondo telematico e digitale delle cibernavigazioni infinite, aggiunge mons. Toso, non significa automaticamente migliore democrazia, più partecipazione responsabile e libera. Ben al contrario, qualora il mondo telematico e la video-politica fossero condizionati da pochi gruppi più potenti, animati da una mentalità neoliberista, l’ethos democratico si atrofizzerebbe, ed emergerebbero nuove tirannie più sofisticate e subdole di quelle del passato”. E’ l’ottenimento della riduzione del popolo a massa, secondo le preoccupate denunce di Pio XII e Paolo VI.

Quale sistema elettorale ?

Se la democrazia digitale non è la soluzione e se nella società il permanere dei corpi intermedi costituisce ancora il baluardo contro la massificazione e la salvaguardia delle indispensabili articolazioni, allora, oltre la difesa dei valori e dei principi riferiti a quei presupposti a cui abbiano accennato, occorre ripristinare sistemi di designazione della rappresentanza che abbiano un carattere inclusivo che, cioè rafforzino una democrazia realmente rappresentativa. Nella crescita delle diseguaglianze e delle “esclusioni” sociali, l’esercizio consapevole del voto assume un carattere ancor più irrinunciabile. Se è vero che la Dottrina della Chiesa non indica una vera preferenza per i sistemi elettorali, tuttavia è ragionevole affermare che con essi va tutelata al massimo la possibilità per il cittadino di esprimere la propria preferenza e la scelta di chi lo rappresenti nelle istituzioni.

Venendo alla situazione italiana, dove si sta svolgendo da oltre due decenni, una lunga e irrisolta diatriba sulla legge elettorale, occorrerebbe anche in questo caso, partire dall’esame di alcuni presupposti, per individuare il sistema più idoneo a salvaguardare la rappresentanza e a rafforzare la partecipazione.

Le leggi elettorali assumono, al di là delle composizioni parlamentari, una valenza di carattere costituzionale in quanto, come ha recentemente scritto il prof. Ornaghi “Nelle democrazie … è proprio il sistema elettorale che deve non solo rispecchiare, ma anche proteggere e magari favorire, la convivenza e l’auspicabile, disinteressata cooperazione, almeno su alcuni temi autenticamente grandi e vitali, tra maggioranza e minoranza”. Superficialmente e strumentalmente, aggiungo io, si ritiene che il voto divida. Esso, se frutto di una scelta razionale, può significare anche consapevole indicazione di un interesse generale. E’ su tale presupposto che la Costituzione italiana rifiutò l’idea del mandato imperativo indicando una assenza di vincolo, che però è stato recentemente utilizzato a copertura di un pessimo trasformismo.

Ornaghi, poi, aggiungeva che il voto: “In particolare deve perseguire, quali compiti mai dismissibili, la rappresentatività delle molteplici convinzioni … dei cittadini (oltre che dei loro interessi più materiali), il controllo sull’attività di governo, insieme con … la scelta da parte dei cittadini elettori delle persone fisiche cui fiduciariamente assegnare la funzione di rappresentare e … di governare”.

Questa rappresentatività non può non tener conto che l’Italia possiede una connotazione plurale, frutto di una storia ricca di tradizioni e di influenze culturali differenti Essa ha trovato, comunque, un suo elemento profondo unificante, rappresentato dai valori religiosi e civili del cristianesimo, tali da permeare l’Italia come “una d’arme, di lingua, di altare, di memorie, di sangue e di cor”. Questo pluralismo ha creato gli Stati regionali e i Comuni; le eccellenze artistiche e delle produzioni artigianali; la molteplicità delle raffigurazioni culturali e architettoniche nelle comunità anche minori di tutta la penisola. E’ questo l’humus che ha fatto grande la Nazione italiana prima e senza il nazionalismo; che ha fissato la forza delle istituzioni senza statalismo e verticismo; che ha prodotto la partecipazione e la crescita senza la Rivoluzione.

Compito essenziale della politica e, nel caso, della legge elettorale è quello di salvaguardare una rappresentatività che non tradisca questo carattere plurale della realtà del Paese e la forza della partecipazione popolare alla sua crescita.

Rispetto alla questione fortemente dirimente tra un sistema proporzionale ed uno maggioritario, si avanza frequentemente la tesi che quest’ultimo assicurerebbe maggiore governabilità. Si esalta la questione della decisionalità. Nei giorni passati qualche intellettuale ha chiesto di riprendere “la bandiera della democrazia maggioritaria”.

Per la verità, proprio l’esperienza italiana dei vari sistemi con maggioritario di coalizione o, addirittura anche quello che si accompagnò al tentativo bipartitico (PDL e PD), ha dimostrato che tali forzature non tengono di fronte all’asprezza dello scontro che, proprio la corsa a conquistare il premio, accentua tra e nelle forze politiche. Come, invece, ha motivato recentemente Valerio Onida, sostenendo una indicazione proporzionale: “ [con esso] si favorirebbe l’evoluzione di questo sistema politico verso prospettive più chiare che non quelle di una permanente guerra senza quartiere di tutti contro tutti, combattuta cercando di raccogliere con ogni mezzo e a ogni costo un voto in più, per poi spenderlo nella continuazione della stessa guerra”.

I sistemi elettorali, va detto una volta per tutte, sono in funzione della scelta dei legislatori, come diceva Toqueville. Coloro a cui compete la funzione legislativa, primaria in uno stato democratico, devono essere rappresentanti del popolo. Nei meccanismi elettorali ove si vota solamente il simbolo di partito si spezza questo rapporto tra cittadino e legislatore che configura un legame di fiducia e di reciprocità.

Le regole del voto sono, quindi, tenute a rispettare innanzitutto questi riferimenti. Come ha scritto il direttore di Avvenire recentemente, la legge elettorale è chiamata a “restituire agli elettori il potere di scegliere gli eletti e consentire di rappresentare davvero e seconda giusta proporzione la realtà italiana”. Solo partendo da questa rappresentanza reale si potranno comporre accordi politici, programmi condivisi, alleanze stabili di governo. Una governabilità forte anche perché basata su un vero consenso maggioritario. Sarebbe il ritorno del tempo di una giusta politica a partire dal formarsi delle Assemblee legislative.

L’esperienza mostra che, in Europa, la stabilità e la forza di governo possono risiedere in Paesi ove il sistema elettorale è quello proporzionale corretto. Si hanno governi, come in Germania, che trovano nella normativa costituzionale un supporto alla governabilità attraverso il principio della sfiducia costruttiva. E’ l’esempio di una riforma costituzionale realmente necessaria.

Le sentenze che hanno dichiarato incostituzionali le precedenti leggi elettorali hanno di fatto stabilito e confermato che debba esserci un giusto rapporto, una corretta proporzione, tra il voto dei cittadini e la rappresentanza parlamentare e che tale elemento non può essere stravolto. Il suo corollario è che le maggioranze parlamentari a sostegno dei governi devono formarsi sulla base di numeri che trovino il loro fondamento nel voto dei cittadini e non nei meccanismi di attribuzione dei seggi.

Troppe poche voci oggi esaminano la questione delle riforme, compresa la legge elettorale, nel loro aspetto più proprio e cioè del favorire una matura democrazia rappresentativa e partecipativa. Al contrario si è puntato ai vantaggi di parte politica. Ed è la vera ragione che ha condotto il centrosinistra a perdere la battaglia referendaria. Tutta la cultura costituzionale, nella quale era protagonista il giusnaturalismo cattolico, aveva dimostrato che la governabilità veniva assicurata nella misura in cui si rispettava la rappresentanza e che questa aveva come presupposto l’attenzione e la partecipazione dei cittadini nelle modalità più varie: partitiche, sindacali, associative, dei corpi intermedi e così via.

E’ una governabilità priva di tali presupposti che si è tentato, più volte, nell’ultimo ventennio, di impiantare nelle nostre istituzioni. Essa si è accompagnata all’emarginazione dell’altro elemento caratterizzante la cultura istituzionale cattolica, cioè la sussidiarietà, indispensabile per contenere la crisi della democrazia, attraverso la salvaguardia delle istituzioni più vicine al cittadino.

Come è stato ribadito nel recente manifesto del MCL per gli enti locali, i tragici fatti dello scorso anno e di questo inverno hanno dimostrato che il tessuto sociale di base, che resiste nelle comunità territoriali è valido ed è portatore di solidarietà e civismo; che la diffusa rete delle piccole e medie imprese presenta una volontà di impegno che neppure le calamità naturali riescono a piegare; che i valori di riferimento che animano i corpi sociali intermedi familiari, associativi, di volontariato, sono la vera grande risorsa del Paese sui quali ci si può sempre contare. In parole brevi: c’è ancora negli enti locali, nonostante le crisi economiche, un’Italia diffusa, capace di lavorare e di dare solidarietà e che non può più trovare nelle istituzioni solo barriere burocratiche e fuga dalle responsabilità.

Il successo delle liste civiche nelle ultime elezioni dimostra, oltre la fragilità grillina, un riferimento politico civico che si avvale di personalità e di iniziative capaci di interpretare aspettative e di recuperare un radicamento comunitario. E’ stato calcolato che nei 145 comuni con più di 15 mila abitanti, l’insieme delle liste civiche, al primo turno, ha ottenuto oltre il 18 per cento. E nel ballottaggio il successo di alcuni candidati ha consentito di triplicare i Comuni retti da sindaci espressioni di liste civiche.

Questo importante Convegno, che richiama il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa, risponde alla domanda pressante di analisi e proposte sulla crisi delle istituzioni e dei fondamenti della democrazia, analisi e proposte che escano dall’inconcludente ambito delle soluzioni efficientistiche o delle tecniche politologiche .

C’è una richiesta di certezza e non solo di sicurezza, di valori fondanti e non di mere ricette pratiche, di rompere con l’individualismo, il “deserto dell’io”, anche di massa, per ritrovare le ragioni per la tutela della persona, dell’interesse generale e del bene comune, senza i quali una democrazia non può esistere o comunque fallisce il suo compito. Anzi si rivolge nel suo contrario.

I cattolici, come ha più volte affermato Papa Francesco, sono cittadini a pieno titolo. E’ giunto il tempo di far sentire, ancora una volta, forte la loro voce. Senza iattanza, ma anche senza timidezze. Consapevoli della responsabilità che il difficile momento richiede.