La nozione di redenzione è strettamente connessa con quelle di espiazione e di sacrificio; tutte e tre sono presenti in molte religioni di ogni tempo e vi hanno un ruolo fondamentale.
Redenzione, dal latino “redimere”, significa propriamente “ricomprare”, quindi indica il “riscatto” di qualcosa o di qualcuno.
Espiazione, dal latino “expiare”, indica l’azione o il complesso delle azioni rituali dirette a “tener lontano”, quindi a “placare” la collera della divinità, causata generalmente dalla condotta dell’uomo. L’azione rituale espiatoria comprende quasi sempre anche un sacrificio. Nell’ebraismo, inoltre, nell’ambito dei riti di espiazione di cui parla il Levitico (16,21-22), va segnalato il rito del capro espiatorio che consisteva nel cacciare nel deserto un capro sul quale il gran sacerdote riversava tutti i peccati di Israele, che così si riteneva fossero espulsi insieme al capro.
Sacrificio, dal latino “sacrum facere”, significa “rendere sacro”; poiché sacro, come anche “santo”, vuol dire “separato”, sacrificare qualcuno o qualcosa significa sottrarlo al mondo profano per riservarlo alla divinità. Dio infatti è il Santo per eccellenza, assolutamente separato dal mondo, trascendente il mondo. Il sacrificio è dunque quel rito mediante il quale si offre alla divinità qualcosa, che però deve prima essere qualificata religiosamente, cioè deve essere sottratta all’uso profano rendendola “sacra”, quindi “separata” per destinarla alla divinità.
Nella tradizione ebraica, come si ricava dall’Antico Testamento e in particolare dal Levitico e dai Numeri, sono presenti vari tipi di sacrifici: cruenti (talvolta anche umani), incruenti (oblazione), di olocausto, di purificazione, di espiazione, di comunione. Tutti questi sacrifici, tranne quelli umani, erano in uso anche ai tempi di Gesù. D’altra parte, si può dire che l’azione di espiazione è assolutamente centrale in quasi tutte le religioni, essendo ritenuta essenziale per conciliarsi e propiziarsi la divinità. Il concetto della sofferenza espiatrice, inoltre, era diffuso nell’ambiente giudaico, in cui si riteneva che i dolori e la morte di un giusto fossero utili all’intera collettività (ad esempio: II Macc., 7,37; Is., 53,10). Per la mentalità giudaica, infatti, sacrificio e sangue richiamano l’espiazione e l’alleanza (Es. 24,8). Soltanto in Osea sembra affacciarsi la tendenza verso un superamento della pratica dei sacrifici, là dove Dio afferma: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”, nonché nel Salmo 39,7 ove Davide così si esprime, rivolgendosi a Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci,…..non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa”, oppure nel Salmo 49,14.23: “Offri a Dio come sacrificio la lode”; “Chi offre la lode in sacrificio, questi mi onora”.
Anche la fede cristiana è comunemente ritenuta fondata sulla raffigurazione di un Dio che – per cancellare le conseguenze del peccato dell’uomo, cioè del suo atto di ribellione contro Dio, e ripristinare quindi la giustizia – pretende una riparazione del torto subito. E questa riparazione viene fatta dallo stesso Dio, tramite il “sacrificio” del proprio Figlio unigenito, sacrificio consistente nella sua morte sulla croce.
E’ noto che la elaborazione della teoria della soddisfazione vicaria risale all’XI secolo ed è dovuta ad Anselmo di Canterbury. Secondo tale teoria, che è quella comunemente presente alle coscienze cristiane, l’atto di ribellione dell’uomo contro Dio ha inferto una ferita infinita – essendo Dio infinito – all’ordine della giustizia. Poiché tale ordine deve essere ripristinato e poiché l’uomo non è in grado di farlo a causa della sua limitatezza, è Dio stesso che ripara l’ingiustizia sostituendosi all’uomo e, facendosi uomo Egli stesso, si offre in espiazione morendo sulla croce. La redenzione, dunque, è conseguenza del ripristino del diritto avvenuto grazie alla azione espiatrice della morte di Cristo sulla croce.
Questa visione giuridica, legalistica, della redenzione, secondo la quale è necessaria un’azione espiatrice per ripristinare il rapporto con Dio, azione che consiste nell’offerta di un sacrificio, e di un sacrificio umano – anzi, per essere più precisi, del sacrificio dell’uomo-Dio, mediante l’immolazione del Figlio stesso di Dio, il solo in grado di riparare il torto infinito inferto a Dio – è francamente inaccettabile alle coscienze. Né si vede in che modo la fede cristiana si differenzierebbe dalle religioni pagane e dal culto ebraico qualora questa concezione fosse vera: il sacrificio cruento, infatti, avrebbe in essa un ruolo centrale.
Gesù, che pure osserva le prescrizioni rituali in uso presso i Giudei del tempo, si esprime nettamente contro la pratica dei sacrifici, ritenendoli privi di valore. Egli, infatti, richiama per ben due volte il versetto di Osea sopra citato, così apostrofando i farisei: “Andate dunque e imparate cosa significhi: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’” (Mt. 9,13); “Se aveste compreso che cosa significa: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’, non avreste condannato persone senza colpa” (Mt. 12,7).
Come si spiega allora il collegamento stabilito tra la redenzione operata da Cristo e il suo sacrificio? Perché si afferma che la salvezza è possibile solo grazie al sacrificio di Cristo e che questo sacrificio consiste nella sua morte sulla croce, che ha ‘riscattato’ i peccati degli uomini?
Per suffragare tale interpretazione, che del resto è coerente con la concezione tradizionale presente in tutte le religioni in ordine ai rapporti tra la divinità e gli uomini, vengono citati vari testi evangelici e più in generale neotestamentari. Ad esempio, il versetto 10,45 del Vangelo secondo Marco (identico al versetto 20,28 del Vangelo secondo Matteo) così recita: “Il Figlio dell’uomo non venne per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita in riscatto (lùtron = redemptio) in sostituzione di molti”. Questo versetto è l’unico passo (insieme al versetto 14,24 – consacrazione del calice) del Vangelo di Marco in cui Gesù dichiara il motivo della sua venuta nel mondo e della sua morte violenta ed è uno di quei dati sui quali si fonda la teologia dell’espiazione.
La parola “lùtron,” corrispondente al latino “redemptio”, utilizzata nei testi evangelici, indica il prezzo del riscatto di uno schiavo o di un prigioniero di guerra. Il prezzo del riscatto per la liberazione poteva consistere in un sacrificio agli dei, ma questa poteva avvenire anche senza riscatto , quindi gratuitamente. Anche nell’Antico Testamento, quando il “redentore” è Dio stesso, la liberazione è effettuata sempre gratuitamente (cfr.: Es. 6,6-8; Deut. 7,8; Is. 52,3).
Nel Nuovo Testamento, invece, le parole della consacrazione (Mt. 26,28; Mc. 14,24; Lc. 22,20; I Cor. 11,24) indicano che il sangue di Gesù è il mezzo attraverso il quale viene ratificata la (nuova) Alleanza e, secondo Mt. 26,28, ha anche valore espiatorio per i peccatori. Vari, comunque, sono i passi che sembrano indicare che gli uomini sono giustificati e redenti grazie al sangue di Cristo.
Sembra, dunque, non solo che la Nuova Alleanza richiede di essere ratificata con il sangue, e addirittura con il sangue del Figlio di Dio, ma anche che la redenzione dei peccati non è gratuita bensì pretende un prezzo, e un prezzo di sangue (v. Mt. 26,28). Se così fosse, saremmo di fronte a un Dio sanguinario analogo a quello di tante altre religioni, giustamente riguardate con sufficienza od orrore.
In tal caso dovremmo in primo luogo prendere atto di trovarci in presenza di un arretramento del Nuovo Testamento rispetto alla redenzione gratuita accennata nell’Antico Testamento, nonché rispetto ai passi di Osea e dei Salmi che indicano un superamento della pratica dei sacrifici.
In secondo luogo, questo arretramento sarebbe in contraddizione sia con l’evidente ed innegabile processo di spiritualizzazione dei precetti dell’Antica Alleanza operato da Gesù – basti pensare alla sua continua polemica con i farisei – sia con la esplicita e ripetuta affermazione di Gesù circa la inutilità dei sacrifici.
Per giungere ad una corretta lettura dei testi è allora necessario, in via preliminare, tener presente che Gesù parlava ai Giudei e quindi usava il loro linguaggio: e la mentalità giudaica (e non solo giudaica) del tempo riconosceva la necessità del sacrificio per la sua funzione purificatoria ed espiatrice, ed il sacrificio richiedeva sempre – eccetto nel caso dell’oblazione – lo spargimento di sangue: “Secondo la Legge, infatti, senza spargimento di sangue non c’è perdono” (Eb. 9,22). Tutta la storia di Israele dimostra l’importanza che hanno in essa il sacrificio e il sangue.
Bisogna allora capire se il “sacrificio” di Gesù consiste anch’esso necessariamente nello spargimento di sangue o se, invece, possa avere un contenuto diverso.
Come abbiamo visto, l’azione del “sacrificare” implica che la cosa o la persona oggetto del sacrificio diviene per ciò stesso un essere a parte, essenzialmente diverso da tutti gli altri. Questa diversità si esprime in duplice modo: da una parte, la cosa o la persona sacra “viene elevata in una nuova sfera non più a disposizione dell’uomo”; dall’altra, “questa segregazione include allo stesso tempo il ‘per’. Proprio perché donata totalmente a Dio, questa realtà esiste ora per il mondo, per gli uomini, li rappresenta e li deve guarire. Possiamo dire anche: segregazione e missione formano un’unica realtà completa” (J. Ratzinger-Benedetto XVI: Gesù di Nazaret).
Ora, Gesù Cristo è stato “consacrato” dal Padre e mandato nel mondo (v. Gv. 10,36); quindi, è la discesa nel mondo in se stessa, vale a dire l’incarnazione, è tutta la vita di Cristo, e non semplicemente la sua morte sulla croce, ad essere la conseguenza del sacrificio, cioè della “consacrazione” fatta dal Padre. Ciò che è veramente decisivo e salvifico è il fatto dell’incarnazione, nella quale Dio si fa uomo ed un uomo è Dio.
La Lettera agli Ebrei (10,14) afferma che Cristo “con un’unica oblazione ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”: e l’oblazione, che consiste in questo caso nell’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre (10,10), è un’offerta incruenta. Non solo, ma Dio viene nel mondo, tramite il Figlio, di sua volontà, non sono gli uomini che prendono l’iniziativa per riconciliarsi con Dio: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe” (II Cor. 5,18-19).
Come ricorda la Lettera agli Ebrei (10, 5-7), citando il Salmo 39, 7-9,“entrando nel mondo, Cristo dice: ‘Tu non hai voluto sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”. E’ questo il vero sacrificio di Gesù: la sua incarnazione.
Cristo è disceso nel mondo “per servire”, con la missione di far conoscere Dio e il suo Inviato a tutti coloro che il Padre gli ha dato, giacché in tale conoscenza consiste “la vita eterna” (Gv. 17,2-3). E quindi il “servizio” di Gesù – che è la luce del mondo, con una capacità infinita di irraggiamento – consiste nell’insegnare (“Uno solo è il vostro maestro, il Cristo”: Mt. 23,10), nell’indicare la via agli uomini, affinché essi, guardando alla sua esistenza nel mondo, la prendano a modello per giungere “ad essere conformi all’immagine del Figlio” di Dio (Rm. 8,29). Questo carattere esemplare della vita dell’Inviato di Dio nel mondo comporta quindi che l’imitazione di Cristo è la sola via che consente agli uomini di pervenire alla verità, a quella verità che dà la vita.
“Andate dunque e imparate cosa significhi: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’” (Mt. 9,13): Gesù stesso esorta dunque a tralasciare i sacrifici e a concentrarsi su ciò che è essenziale; Dio vuole “l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os. 6,6). Dio dunque vuole amore e conoscenza; ed essi sostanzialmente coincidono in quanto, come la conoscenza consiste nella identificazione tra conoscente e conosciuto, così l’amore opera l’unificazione tra le persone che si amano.
La lettera ai Romani ci offre un esempio del nuovo modo di intendere il sacrificio secondo la fede cristiana: “Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale ( ‘loghikòs’= ‘intellettuale’, più propriamente: “del Logos”)” (Rm. 12,1). Come Cristo, il Logos, venendo nel mondo con l’incarnazione, ha offerto il proprio corpo, (Eb. 10,10) cioè se stesso, per indicarci la via per conseguire la vita eterna, così noi dobbiamo offrire noi stessi come sacrificio vivente a Dio: dobbiamo quindi riconoscere la realtà dell’incarnazione del Logos e le sue implicazioni, e darci a quella ‘imitatio Christi’ in cui si risolve il nostro culto “del Logos”.
Ma l’incarnazione – che, ripetiamo, è il vero ‘sacrificio’, e che è giunta fino alla morte sulla croce – non può essere limitata ad un evento circoscritto ad una data epoca, per scomparire dal tempo e dallo spazio una volta che l’uomo Gesù abbia lasciato questo mondo. La persistente e visibile presenza di Dio nel mondo – del resto da Gesù stesso assicurata: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt. 28,20) – avviene mediante l’assunzione da parte di Cristo di un’altra veste sensibile, e precisamente quella della eucaristia – il pane vivo disceso dal cielo – che realizza visibilmente quella onnipresenza temporale del divino che è costitutiva della incarnazione. Da qui deriva la perpetuità del sacrificio eucaristico, che consiste propriamente in un rendimento di grazie.
In conclusione, la redenzione si ha non in forza di un sacrificio espiatorio offerto dagli uomini a Dio, come è proprio delle religioni non cristiane, bensì grazie alla incarnazione di Dio che si è fatto uomo in Cristo e che si rinnova nella eucaristia; in questa discesa dal cielo nel mondo consiste il vero “sacrificio”, liberamente scelto da Dio per soccorrere l’uomo, cioè per indicargli la via per giungere alla conoscenza e all’amore di Dio. Non quindi l’uomo che offre a Dio, ma Dio che dà, anzi si dà all’uomo. L’incarnazione è pertanto un atto d’amore che arriva sino alla morte sulla croce.
Non deve infine sfuggire il carattere simbolico della croce, che evidentemente nulla toglie alla realtà storica della morte di Cristo, ma al contrario la arricchisce di significato. Non dobbiamo vedere in essa solo un orribile strumento di sofferenza e di morte, in quanto non è la sofferenza che redime, come non lo è lo spargimento di sangue: queste credenze appartengono a quelli che erano sotto la Legge, come ricorda la Lettera agli Ebrei (9,22).
Infatti, la croce – che è l’albero della Vita del nuovo Adamo, e quindi di tutti noi, e inoltre l’asse del mondo, come enunciato anche nel motto dei Certosini: “Stat crux dum volvitur orbis” – con il suo asse orizzontale indica l’abbraccio dell’intera umanità da parte di Dio; l’asse verticale, invece, in senso discendente indica la discesa di Cristo nel mondo, mentre in senso ascendente indica sia il ritorno di Cristo “là dove era prima” (Gv. 6,62), sia l’ascesa dell’uomo che – ad imitazione di Cristo – tende a unirsi a Dio: “Quando io sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv. 12,32); “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io”, “io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv.17,23,24). Alessandro Barilà